La volata finale per le presidenziali Usa sta diventando un gioco a nascondino fra Kamala Harris e Donald Trump principalmente sulle future politiche fiscali. Il nuovo premier laburista britannico, Keir Starmer, ha annunciato un budget “lacrime e sangue”: certamente con più tasse. In Francia il governo dimissionario di Gabriel Attal ha messo sul tavolo una bozza di manovra conservativa avvertendo il futuro premier (che il presidente Emmanuel Macron sta tardando a scegliere) che si tratta di uno schema “reversibile”: eufemismo per segnalare che già prima della sua lunga estate elettorale Parigi era stata inserita dalla Ue nella procedura d’infrazione per deficit troppo alto. In Germania il cancelliere Olaf Scholz è da mesi sull’orlo delle dimissioni, stretto fra il suo ministro delle Finanze (il liberale rigorista Christian Lindner, spalleggiato dalla Corte suprema tedesca sui vincoli legali al bilancio statale) e i verdi che – a sinistra della coalizione rossoverde – reclamano il prosieguo delle politiche di transizione ambientale a qualsiasi costo.



È su questo sfondo che l’Italia – abituata da decenni a fare conti “dolorosi” (copyright Starmer) nella preparazione della propria legge di stabilità – affronta un nuovo autunno problematico. Il non esser più pecora nera in Europa e il condividere una stessa tempesta geopolitica può essere perfino un’opportunità, soprattutto nella fase di avvio accidentato della nuova legislatura europea, fra Bruxelles e Strasburgo. Tanto più che la nuova questione fiscale globale è radicata su un terreno politico-economico profondo: non più gestibile dalla semplice “sovrastruttura” tecnocratica dei parametri di stabilità.



Quest’ultima, d’altronde, era stata sospesa durante la pandemia, mentre è stata ripristinata – senza ritocchi sostanziali – quando la crisi geopolitica ha aggravato di molto gli squilibri portati dal Covid. La stessa Ursula von der Leyen – riconfermata alla guida della Commissione – ha intanto profilato un ulteriore interventismo finanziario Ue, dopo quello inaugurato con il Recovery Plan. Dietro la querelle sulle tasse – estesa dal fuso orario di Los Angeles a quello di Helsinki – emerge comune con evidenza un rebus strutturale.

L’inflazione – prima da Covid, poi da guerra e sanzioni – ha impoverito ulteriormente la maggioranza delle popolazioni occidentali, spingendone una parte sotto le soglie di povertà. Ha invece arricchito aziende grandi e meno grandi, in tutto il mondo: dai colossi dell’energia (basti pensare al caso norvegese) alle banche, che hanno approfittato in pieno del rialzo forzato dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali per frenare il caro-prezzi. Le diseguaglianze sono diventate più marcate ancora che nel pre-pandemia. Le crescenti instabilità socio-politiche (basti pensare agli ultimi disordini in Gran Bretagna, mediaticamente narrati come rivolti contro gli immigrati islamici) sono tutte accomunate da un disagio economico forte e trasversale.



Non sorprende quindi che il neo-premier laburista – dopo aver contrastato le piazze con un approccio di ordine pubblico – stia immediatamente virando verso le misure economico-finanziarie, dove il possibile inasprimento del prelievo sui redditi più alti (e forse sui patrimoni) avrebbe una netta coloritura sociopolitica, di avvio di chiusura dei gap aperti da un quarantennio di liberismo inaugurato proprio in Gran Bretagna. Starmer ha dalla sua anche l’ultimo, disastroso hurrà dei conservatori: il “minibudget” di Liz Truss, che due anni fa mandò a gambe levate la sterlina e i titoli di Stato di Sua Maestà con una ricetta espansionista imperniata su tagli fiscali.

La stessa Harris non fa mistero di voler “alzare le tasse alle imprese e ai ricchi” (fino a 5mila miliardi di dollari nel medio periodo), per “abbassarle alle famiglie a basso reddito” (fino a 4mila miliardi). L’anno scorso Joe Biden ha ottenuto una contestatissima sospensione del tetto costituzionale al debito federale: ora la sua vice candidata a subentrargli non può pensare di sostenere con altro debito le politiche sociali “dem”, il sostegno militare a Ucraina e Israele e il “New Deal” avviato da Biden con l’IRA (transizione energetica) e il “Chip Act” (rinazionalizzazione e rilancio dell’industria digitale). Ed è su quest’ultimo versante che lo scontro elettorale con Trump si annuncia frontale, sotto gli sguardi di tutti i leader occidentali.

L’ex presidente ricandidato ha impostato la sua campagna sulla replica del suo quadriennio alla Casa Bianca, quando il Pil americano crebbe con regolarità – assicurando la piena occupazione – grazie a una classica riforma fiscale “pro-business”. Tagliare le tasse alle imprese e High Net Worth Individual e continuare a ignorare le enormi elusioni fiscali di giganti di ogni settore fu la leva per rilanciare la Corporate America, anche se non per alzare salari e stipendi più bassi. Questo era un obiettivo del programma di Biden, che però non è riuscito a incrementare per legge il salario minimo. Analogamente non ha avuto successo il progetto redistributivo di cancellare i debiti universitari, né la decisione dei dem di prolungare in chiave strategica i sussidi Covid.

La questione – fra le più elementari e ruvide della politica economica – resta: le economie occidentali ripartono se si slegano i lacci fiscali agli imprenditori oppure se li si tassa (in particolare per i  loro recenti “extra-profitti”) ed è lo Stato a riassumere un ruolo più attivo come “riallocatore di risorse”, per lo sviluppo economico e per la coesione sociale? Oppure sono immaginabili “terze opzioni”?

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