Per tanti sono iniziate le sospirate vacanze. Forse in questo momento siamo circondati dalla bellezza della natura o stiamo godendoci la compagnia cara di famigliari e amici. Ma sappiamo che la vita non è fatta di pezzi separati. Sappiamo che le contraddizioni non ci abbandonano. Continuiamo a sperimentare la nostra fragilità, anche quella di noi adulti e non solo dei più giovani. La follia della violenza continua a dilagare accanto a noi. È difficile rimettere a posto questo mondo, risistemare tutto e ripartire dall’inizio. Queste è la realtà nella quale siamo chiamati ad abitare.



Allora è legittimo chiedersi: “Ma in questa situazione di cosa abbiamo bisogno per vivere?”. Bastano le vacanze, il benessere economico, affetti stabili, successo personale, salute del corpo, aspirazioni realizzate? Tutti fattori sicuramente da ricercare e di cui essere grati. Ma l’esperienza ci dice che troppo spesso anche questi fattori non bastano a vivere. Le storie tragiche di suicidi, di violenze disperate, di desolanti situazioni di infelicità raccontano quel fastidio che Pavese aveva così efficacemente descritto nei Dialoghi con Leucò. “La fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate- questo è il vivere che taglia le gambe”.



Forse non è un caso che nel testo di Pavese queste parole siano rivolte da un uomo a una divinità. E che sia proprio lei, la dea, a ricordare all’umano interlocutore che la vita dell’uomo ha a che fare con il mondo degli dei. “Tu sai che le cose immortali le avete a due passi. Bisogna vivere per loro. Ogni gesto che fate ripete un modello divino”. Forse è nella prossimità di queste cose immortali l’inizio di una possibile speranza per la vita? Ma come fare a vivere per loro come la dea suggerisce?

Uscendo, anche se a malincuore, dal linguaggio evocativo della poesia, proviamo a tradurre la questione nei termini di un linguaggio più quotidiano. In fondo il dialogo citato, introducendo il tema del rapporto con il divino, entra nella questione della religione o delle religioni. Viviamo in un tempo di secolarizzazione, ma, forse paradossalmente, sono in tanti a parlare di religioni. Da chi le ritiene colpevoli di guerre e conflitti, a chi, in nome di un’esasperata laicità, le vorrebbe espellere dalla vita pubblica, a chi non ha remore a farne oggetto di derisione, senza dimenticare poi chi riesce a farne anche una bandiera politica. Ma al di là di queste riduttive contrapposizioni, le religioni sono cosa ben più seria.



Da sempre, nei più differenti contesti storici, gli uomini hanno cercato una risposta alla loro lancinante domanda di senso, a quel vivere che taglia le gambe. E le religioni sono state, spesso in mezzo a tante contraddizioni, un punto di paragone in questa ricerca. Oggi viviamo in un tempo secolarizzato. La propositività delle religioni è diminuita, ma non è venuto meno il bisogno dell’uomo, il suo irriducibile desiderio di significato. Ce lo dice la nostra esperienza quotidiana. Se lasciamo parlare il cuore ci accorgiamo che veramente siamo definiti da un’inquietudine in cui, come diceva Montale, “tutte le immagini portano scritto ‘più in là”.

Niente ci basta. Abbiamo bisogno di essere toccati da quelle “cose immortali”. Abbiamo bisogno di accorgerci che veramente “le abbiamo a due passi”. Così vicine da identificarsi in un pezzo di pane che possiamo mangiare, in una persona che possiamo abbracciare. Non abbiamo alcun merito, ma ci è successo. Per tanti il cristianesimo è accaduto. E continua ad accadere come un avvenimento presente. Come ebbe a dire Papa Ratzinger nella sua prima enciclica, “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.

È appena uscito per le edizioni Rizzoli un testo che raccoglie gli inediti delle lezioni tenute da don Giussani ai giovani del Centro Peguy negli anni tra il ’68 e il ’70. Il sacerdote si rivolge a quei giessini della prima ora che, ormai entrati nella vita adulta, desiderano continuare a vivere l’esperienza che avevano incontrato a scuola nel rapporto con lui. I testi ci trasmettono la potenza appassionata dell’esperienza cristiana che Giussani desidera continuare a condividere con i suoi amici. “Bisogna che ci aiutiamo, affinché in noi avvenga questo passaggio dalla fede e dalla speranza come stato d’animo a giudizio sul mondo, il passaggio a criterio di giudizio”. Vibrano le parole di Giussani quando racconta di come è iniziato il cristianesimo: “Come hanno fatto a incominciare a credere? In che cosa è consistito quell’avvenimento che ha destato un tale interesse che la gente per la prima volta ha avuto la fede accesa dentro, che il cristiano è incominciato a essere nel mondo? Non credettero perché Cristo parlava dicendo quelle cose, non credettero perché Cristo fece quei miracoli, non credettero perché Cristo risuscitò i morti. Credettero per quello che Cristo apparve. Credettero per quella presenza. Credettero per una presenza carica di proposta, dunque una presenza carica di significato”.

Il titolo del volume – “Una rivoluzione di sé – La vita come comunione” – può essere un invito a lasciarsi “rivoluzionare”, “percuotere”, come dice Giussani, da quello stesso avvenimento. Un invito a verificare ancora una volta, o magari per la prima volta, se quella presenza carica di significato basta per vivere. Perché in fondo solo di questo abbiamo bisogno, di qualcosa che non dipenda dalle nostre performances o dalle nostre capacità, da ciò che possediamo o dai nostri progetti, che non arretri di fronte alle nostre ansie o alle nostre paure, ma che misteriosamente riaccada nella nostra vita, ci abbracci e allarghi nuovamente il nostro cuore a desiderare quella pienezza per cui siamo fatti.

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