L’emergenza delle disuguaglianze ha colto di sorpresa gli economisti. Da una parte, l’economia neoclassica, dai fisiocratici fino a Kuznets, sosteneva che il processo di sviluppo, dopo una fase iniziale legata alle trasformazioni strutturali della società (da prevalentemente agricola a industriale, dalla vita rurale a quella urbana), attraverso la competizione e la diffusione della conoscenza, avrebbe ridotto le disuguaglianze salariali e promosso una prosperità più condivisa. Gli economisti neoliberali, soprattutto della scuola di Chicago con Friedman, giungevano a conclusioni simili: lasciare che il libero mercato operasse, riducendo l’intervento dello Stato, avrebbe portato a una crescita più condivisa rispetto a quanto fosse possibile con l’economia centralizzata e pianificata dallo Stato.
Si pensava quindi che il mercato si sarebbe occupato delle disuguaglianze. La realtà, tuttavia, è che ci troviamo in un sistema di crescenti disuguaglianze, al punto che alcuni sostengono che la disuguaglianza sia diventata endogena al sistema economico di mercato attuale. Parliamo di disuguaglianze di reddito e, soprattutto, di ricchezza. I dati sono chiari: negli ultimi 15 anni, tre quarti della crescita del Pil mondiale sono andati nelle mani di una piccolissima parte della popolazione, il top 1% dei redditi. La torta è cresciuta, ma la maggior parte della ricchezza si è concentrata nelle mani di pochi.
Negli ultimi anni, l’economia si è spostata verso l’e-commerce, un settore già dominato da una sorta di oligopolio naturale, che ha finito per amplificare ulteriormente le disuguaglianze, soprattutto quelle legate alla ricchezza. I dati che mappano le disuguaglianze sono incredibili. Un recente libro di Branko Milanovic e gli ultimi dati della Banca Mondiale analizzano le disuguaglianze da molteplici angolazioni. Quando ci si confronta con questi dati, la situazione appare sorprendente e insostenibile per la tenuta democratica dei Paesi.
Di fronte a queste evidenze la discussione sul tema si è riaccesa, insieme alla necessità di un cambiamento del modello di sviluppo. Un modello che genera disuguaglianza, infatti, non crea produttività nel lungo periodo. Quando il mercato domina e diventa la norma sociale prevalente, la comunità viene meno. Non a caso, sempre più persone dichiarano di non aver mai sperimentato ambienti o relazioni che sostengano la loro crescita personale. Questo porta a un’incapacità di fidarsi degli altri e, di conseguenza, porta alla sfiducia. Gli studi di Putnam e altri economisti dimostrano che quando si trascura l’importanza della comunità, il capitale sociale si riduce. L’impoverimento dei luoghi in cui le persone imparano a correre rischi per sé e per gli altri ha conseguenze a medio termine molto difficili da invertire, soprattutto in termini di crescita sostenibile e di creazione di legami sociali.
Tuttavia, ridurre la disuguaglianza non significa rinunciare alla diversità. Al contrario, è necessario favorire una biodiversità economica, in cui trovano spazio le multinazionali ma anche le piccole e medie imprese, fondamentali per lo sviluppo del territorio. Una biodiversità in cui i corpi intermedi tornino a favorire una partecipazione democratica e sociale allo sviluppo.
Su questi temi c’è ancora tanto spazio di riflessione, anche se spesso manca una prospettiva storica e critica adeguata. Economisti come Raghuram Rajan o Branko Milanovic stanno contribuendo a costruire una tale prospettiva. Facilitare il dialogo tra queste voci e creare un sistema di pensiero strutturato su queste tematiche è un’assoluta priorità del nostro tempo.
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