Forse è passato molto tempo e gli anni hanno sbiadito i ricordi, ma c’è stato un momento in cui tutti siamo stati spiazzati da quell’espressione “Chiesa in uscita” utilizzata dal Papa agli inizi del suo pontificato, e non solo. Durante l’Angelus del 21 settembre 2020, per esempio, di nuovo affermò che “Quando la Chiesa non è in uscita, si ammala di tanti mali che abbiamo nella Chiesa. E perché queste malattie nella Chiesa? Perché non è in uscita. È vero che quando uno esce c’è il pericolo di un incidente. Ma è meglio una Chiesa incidentata, per uscire, per annunziare il Vangelo, che una Chiesa ammalata da chiusura. Dio esce sempre, perché è Padre, perché ama. La Chiesa deve fare lo stesso: sempre in uscita”.



Però gli anni passano e le parole rischiano di logorarsi. Lo vediamo in un certo impaccio che contraddistingue la ripresa della vita delle nostre comunità a settembre. Calendari fitti, settimane intasate e giornate piene di appuntamenti, spesso sempre quelli, identici negli orari e nei nomi, nei contenuti e nella forma, con la preoccupazione di “fissare la data” prima di capire per quale ragione farlo. Tutto come se avessimo a che fare con la realtà di qualche anno addietro, come se ci fossimo intontiti in un’inevitabile replica delle solite cose. Gruppi che cambiano nomi ma che sono composti dalle stesse persone, richiami rivolti sempre agli stessi ascoltatori, termini e linguaggi che rimangono incomprensibili ai più.



L’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, lo dice con efficacia in un passaggio della sua nuova Proposta pastorale: “La gente è tentata di identificare l’appartenenza alla comunità con la pretesa di essere servita e con l’ingenuità di vedere riprodotti calendari e abitudini che erano consueti in un altro tempo e in un’altra situazione ecclesiale. Ne viene spesso un senso di frustrazione e di insoddisfazione che avvolge di malumore la bellezza della vita delle nostre comunità, così generose, accoglienti, geniali nel fare il bene” (Basta. L’amore che salva e il male insopportabile, Centro Ambrosiano, Milano 2024, p. 16).



L’unico luogo in cui pare che si svolga la vita della Chiesa appare la chiesa. L’urgenza dell’uscire, del vivere le circostanze del quotidiano, dell’abitare fino in fondo gli ambienti del mondo in cui siamo posti, paiono dimenticate. L’altare diventa una serra anziché un trampolino. Eppure è così grande la sete, così forte la domanda, così vero il desiderio di incontrare un significato per la vita. Strabocca da ogni parte, nei nostri fratelli uomini, la curiosità di uno sguardo che cerca una corrispondenza. Il recente viaggio del Papa lo ha mostrato ogni giorno, anche se i media erano preoccupati dei pettegolezzi di casa nostra. E noi dove siamo?

La Chiesa, lo sappiamo bene, non è fatta per stare in chiesa, ma per incontrare l’uomo là dove vive, spera, ama, soffre, studia, lavora, sbaglia, muore. La Chiesa è fatta per la missione. E, come ricorda Papa Francesco, visto che “Ogni nostra missione nasce dal Cuore di Cristo per lasciare che Egli attiri tutti a sé” (Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale delle Pontificie Opere Missionarie, 3 giugno 2023), la prima mossa non potrà che essere il lasciarsi attirare da Lui. Chissà che non sia, quest’anno d’ingresso nel Giubileo, il solito anno, con le solite cose, ma piuttosto l’occasione per essere ripresi fin nelle viscere da Colui che ci vuole vivi, prima che impegnati.

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