Il tempo dei calendari e degli orologi è una convenzione con la quale gli uomini, da secoli, tentano di descrivere quello che oggettivamente vedono accadere nella realtà. E il primo fatto che un osservatore qualunque avrebbe potuto rilevare, anche in fasi remote della storia del genere umano, è l’avvicendarsi delle stagioni. Nella scansione sociale che questo avvicendamento ha assunto in Occidente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, settembre è diventato un mese emblematico: il capodanno dell’anno sociale, l’inizio di un nuovo ciclo, ma anche di una nuova fase dell’esistenza.



Una vecchia canzone di Jovanotti ha di questo mese una descrizione sorprendente: “Prima che il vento si porti via tutto e che settembre ci porti una strana felicità”. Per molti settembre è questa strana felicità, questa gioia di iniziare, questo desiderio di ripartire. Per altri, invece, è iattura, fine della bella stagione, delle lunghe giornate, del tempo passato all’aperto. In entrambi i casi, qualunque sia la squadra di appartenenza di ognuno, l’errore più grave è soltanto uno: iniziare questo nuovo tratto di strada senza fermarsi e giudicare, fare finta che l’inizio di questo mese non significhi nulla, che sia un giorno neutro nei quasi quattrocento scritti sul calendario.



Se l’estate è il tempo della libertà, in cui ognuno si gioca come crede con quello a cui attribuisce valore, settembre è il mese della verifica, in cui si fanno i conti con i risultati di quello che si è scelto: le decisioni assunte nei mesi estivi, le priorità individuate, il modo di impiegare il tempo, a che cosa hanno portato? Di quale tipo di umanità sono state l’approdo? Giudicare è un atto imprescindibile per fare i conti con se stessi, per non sfuggire dinnanzi al fatto che il nostro cammino non è solo l’esito di un dono grande e continuo, di una proposta di vita abbondante e gratuita, ma anche del quotidiano disporsi della nostra libertà.



Oggi la cultura contemporanea sembra esortare con forza a “scegliere chi essere”: l’essere non è più un dato di partenza, ma un punto di arrivo, esito di numerose decisioni che determinano il soggetto fino a renderlo completamente avulso da ogni condizionamento. Così libero da rimanere solo. Il cristianesimo ha sempre posto un’altra questione: “scegli di chi vuoi essere”. Nella fede cristiana è chiaro che il problema della vita non è quello dell’identità, bensì quello dell’appartenenza. Di fronte ad un marito che non ami più, ad un figlio che ti fa versare solo lacrime o ad un lavoro che non sopporti, scegli di chi vuoi essere, decidi dove può riposare il tuo cuore, riconosci qual è il tuo vero bisogno. Settembre è il mese della resa dei conti, in cui tutti – ricominciando – siamo chiamati subito a fare i conti sia con quello che abbiamo scelto durante l’estate, sia con l’appartenenza che ci interessa vivere nel nuovo tempo che comincia. È come se la nostra ragione, per partire nella sua avventura dentro il reale, avesse bisogno di domandarsi: “Chi guardo? Dove guardo? Che cosa mi interessa? Per che cosa davvero urge il mio cuore?”.

Riprendere scuola in questa posizione significa essere immediatamente coinvolti dal destino dei ragazzi che si incontrano più che dai progetti che si possono avere su di loro, educare con questo atteggiamento implica una grande curiosità, una disponibilità a seguire quei due o quei tre che quest’anno diventeranno per chi educa il vero punto di svolta e di libertà. La vita non è una pianificazione di parole che, messe nell’ordine giusto, genera letizia. La vita è un imprevisto che ci travolge e che ci mette sempre su una nuova strada. Iniziare significa scegliere in che squadra giocare: tra coloro che vorranno piegare tutto – e poi lamentarsi che il gioco non riesce – o tra i curiosi che accettano, con umiltà, di tornare ad imparare.

Hannah Arendt diceva che “la mancanza di pensiero mi sembra tra le principali caratteristiche del nostro tempo”. Il pensiero non è un esercizio sofisticato per intellettuali, ma l’atto con cui un essere umano si ferma e dà un nome sia a quello che ha vissuto, sia a quello che desidera per vivere. Essere amici, in questo frangente storico, significa evitare di stare insieme ignorando il bisogno che abbiamo di pensare e di giudicare. Davanti al dolore, davanti al peccato, davanti agli inevitabili sbagli dell’esistenza che ci umiliano e ci gettano in un imbarazzo indicibile, noi – tutti noi – abbiamo bisogno di amici. Per stringere un nipote che arriva o una madre che muore, per sopportare un sacrificio straziante o constatare che il tempo vissuto è davvero trascorso per sempre, per lavorare in settori delicatissimi o in luoghi anonimi e lontani, per stare al mondo – insomma – abbiamo bisogno di qualcuno che ci sia compagno. Ed è questo l’augurio più bello per questo nuovo anno che inizia: che possa essere un settembre pieno di giudizi, di desideri. Un settembre pieno di amici.

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