Presento il lavoro di inizio anno e i ragazzi, in silenzio, dapprima prendono carta e penna, ma, non riuscendo a scrivere subito, devono pensare. Il lavoro chiede di mettere nero su bianco quali domande, quali urgenze hanno all’inizio del nostro percorso, e che vorrebbero affrontare in classe. Riempie di tenerezza e di commozione vedere questi ragazzi e ragazze che, una volta tanto, sono al lavoro su loro stessi. “Prof, io non so cosa scrivere”, dice uno. “Quello che scrivo lo legge solo lei, vero?”, domanda un altro.



Alla fine raccolgo i fogli, in attesa di trascrivere quelle domande su cui lavoreremo lungo l’anno. Prima di trascriverle leggo un interessante articolo di Susanna Tamaro, uscito su Il Corriere della Sera il 26 settembre, intitolato “Giocare liberi senza i social salverà i bimbi”. Nel testo l’autrice sostiene che urge far recuperare ai nostri bambini l’uso dei cinque sensi, per non cadere nella trappola di una tecnologia che mangia l’umano. Tra le altre cose scrive: “Il bambino che una volta viveva con le ginocchia eternamente sbucciate, ora esce di casa bardato di para-gomiti, para-ginocchi e casco anche se deve fare un minuscolo giretto in bici nel giardino di casa”.



Diverse domande dei miei studenti, in effetti, suonano così: “Come faccio a passare l’anno senza debiti? Cosa diventerò da grande? Perché ho un’ansia costante nelle mie giornate?”, quasi a conferma di un necessario allenamento a fare i conti con la vita, senza il continuo bisogno di deviarne i colpi. Ma, a un tratto, arriva questa domanda: “Perché siamo dotati di una parte di noi (il cuore) che è impenetrabile e indecifrabile?”.

Il contesto familiare potrà anche tentare di tutto per risparmiare gli urti del vivere, ma in noi c’è qualcosa che resiste. La domanda di questo ragazzo di terza superiore, in un attimo, ci riposiziona davanti alla vera questione: io chi sono? E non potremo cavarcela con facili risposte da manuale o anestetiche iniziative perché uno non ci pensi più di tanto. Prima ancora che i rischi della tecnologia, o il gusto di ritrovare il rapporto con la natura (come suggerisce sempre la Tamaro nel suo articolo), dobbiamo fare i conti con la sfida lanciata dal nostro stesso cuore che, impenetrabile e indecifrabile, è comunque dotato di una porta d’ingresso. Ma chi potrà entrarci?



Quando accadono fatti che ci lasciano impotenti, quando i rapporti che ritenevamo più cari iniziano a deluderci, quando il nostro sguardo è determinato da una misura che soffoca e iniziamo a pensare di essere un problema, allora emerge con più intensità la questione: c’è qualcuno in grado di varcare la porta del mio cuore? Occorre arrivare fin lì per intuire, anche solo lontanamente, la portata del nostro desiderio di pienezza che ci sembra minacciato da ogni parte e da chiunque.

C’è in noi una sorta di “sesto senso” a cui tornare, prima di operare qualsiasi altro “ritorno” e “se noi non mettiamo davanti agli altri l’attrattiva di uno sguardo che fa scoprire all’altro la propria umanità come la cosa più bella, più preziosa che ha, come quando ci sentiamo noi guardati così da qualcuno, non potremo mai dire a un ragazzo: ‘Tu non sei un problema!’, e sarà difficile – se non impossibile – interloquire con i ragazzi che sono alla ricerca di uno sguardo così” (Julián Carrón, Intervento al convegno Educatori in opera. Ovvero uomini impegnati con la propria umanità, tenuto il 31 agosto 2023 e organizzato dalla Fondazione San Michele Arcangelo).

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