Libano, tre draghi contro la speranza

La guerra in Libano non porta solo morte e devastazione. Rischia di distruggere una storia di convivenza unica nel Medio oriente

La guerra in Libano non porta solo morte e devastazione. Essa seppellisce un’esperienza di convivenza civile e di unità nazionale fra comunità arabe cristiane e comunità arabe musulmane. Un tentativo unico e prezioso. E cancella la memoria della bimillenaria storia della comunità cristiana maronita, senza cui non si capisce il Libano. E un popolo deprivato dei suoi tentativi migliori e della memoria non ha speranza.



Un libro di Virgil Gheorgiu, Christ au Liban, che nel 1982 tradussi per la casa editrice Città armoniosa, salva la memoria di quella storia. Si tratta di una storia di sofferenza e di martirio, di ospitalità offerta ad altri popoli, e attaccamento insieme alla propria fede e alla propria identità nazionale. Fedele al papa, radicata nel mondo mediorientale e aperta al mondo occidentale, la comunità maronita ha creato scuole, ospedali, giornali, biblioteche; la popolazione musulmana ha potuto usufruire delle opere sociali ed educative realizzate dai cristiani.



Nel 1943 il Libano si proclamò indipendente, scelse di essere una Repubblica democratica parlamentare e cercò di dare un’equilibrata rappresentanza politica alle appartenenze confessionali, riconosciute come aventi eguale dignità (non quindi la semplice tolleranza che il dominante concede al sottomesso). Il patto nazionale di quell’anno prevedeva che il presidente della Repubblica fosse un maronita, il capo del governo un musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita.

La Svizzera d’Oriente

Non che fosse tutto rose e fiori, ma la pace sociale fu assicurata e, con essa, fu raggiunto un formidabile benessere. Fino agli anni 70 del secolo scorso il Paese dei cedri fu il centro economico e culturale più importante, la Svizzera del Medio Oriente. Fu per il concorso virtuoso di vari fattori, in buona parte frutto di quella bimillenaria storia. Innanzitutto il fattore umano, l’ethos prevalente di “una generazione decisa a non essere spettatrice ma a scegliersi e volersi” (George Naccache, citato da Amin Elias, in Quando il Libano era la Svizzera d’Oriente sul sito della Fondazione Oasis). Poi il fattore culturale, il personalismo cristiano che orientava soprattutto i primi presidenti. La costruzione dello Stato moderno, nel quadro del pluralismo confessionale, doveva sposarsi con la solidarietà e la giustizia sociale, ed avere come stella polare la libertà di religione, di cultura e di impresa. No all’individualismo borghese, no al collettivismo marxista, no anche all’esistenzialismo ateo di Sartre.



I profughi armati

È noto poi che questo edificio politico, economico e sociale comincia a scricchiolare negli anni 70 in coincidenza la seconda ondata di ingresso dei profughi palestinesi, questa volta espulsi dalla Giordania, e armati. Questo evento fu dirompente, perché portò sul territorio libanese conflitti di portata internazionale, in cui protagonisti non erano solo l’Olp e Israele, ma tutto il mondo arabo, gli Usa alleati di Israele, l’Urss che armava i fedayn palestinesi, con il favore dei partiti comunisti occidentali. Queste tensioni fecero esplodere le contraddizioni e i conflitti latenti nelle componenti libanesi, saltare in aria il senso dell’unità nazionale e i fragili equilibri su cui si reggeva.

Gheorghiu usa l’immagine apocalittica del drago per identificare questo nemico mortale: “La difficoltà oggi – scriveva nell’introduzione del suo libro – è che non è un solo drago ad accanirsi sulla città come ai tempi di san Giorgio, ma tre. Questi draghi che decimano la popolazione libanese da un decennio arrivano: il primo dalle steppe selvagge della Russia, il secondo dai deserti di sabbia e il terzo drago viene dall’Atlantico e dal mare”.

In questi anni i draghi hanno magari avuto qualche metamorfosi, hanno diversificato le lingue di fuoco e le code micidiali, quello del deserto sembrava uno ma ha due teste, una contro l’altra… Sta di fatto che lo scontro tra le volontà imperiali-egemoniche dei draghi ha trasformato la Svizzera d’Oriente in un devastato campo di battaglia, annullato un tentativo culturale-politico eccezionalmente positivo. Cancellato la memoria. E, forse, Dio non voglia, distrutto la speranza.

Davvero è tutto inutile?

Ho trovato prezioso il breve messaggio diffuso da un volontario dell’Avsi: “Sono in Libano da 17 anni e, senza dubbio, stiamo affrontando i giorni più difficili da quando vivo qui. Nonostante la situazione a tratti paralizzante non ci possiamo fermare, non possiamo far vincere un clima disperato in cui sembra che nulla valga la pena, che ogni sforzo sia inutile. Per questo con i colleghi di Avsi stiamo organizzando i primi aiuti umanitari. A Beirut, sulle colline intorno alla capitale, nella Valle della Bekaa e al Sud del Paese stiamo distribuendo generi di prima necessità  a migliaia di persone che sono dovute fuggire dai bombardamenti…”. Sono iniziative che si possono sostenere. Come minimo ammirare. Per lasciarsi interrogare da questi piccoli grandi gesti di gente non rassegnata alla disperazione. Gente che vive.

Il che mi richiama alla mente un’altra circostanza. Quando nel 1981 ci fu il colpo di Stato “sovietico” del generale Jaruzelski, fu coniato lo slogan: “La Polonia non è morta finché noi viviamo”. Slogan? Meglio: atto di consapevolezza, di preghiera e di resistenza. Possiamo, o sappiamo, oggi dire: “Il Libano non è morto finché noi viviamo?”

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