Adesso che è venuta a mancare la “vera” casalinga di Voghera (al secolo Paola Zanin, deceduta il 13 agosto 2024 all’età di 76 anni, fondatrice dell’associazione che riunisce le massaie della città e ambasciatrice delle ragioni spesso dimenticate delle casalinghe) verso chi possiamo indirizzare l’immaginario stereotipo che a lei è stato attribuito?
Potremmo adottare, ad esempio, l’equivalente (si fa per dire) tedesco incarnato dalla “casalinga sveva” (Schwäbische Hausfrau), ma chi la conosce da noi? Oppure, e meglio ancora, potremmo rivolgerci alla famosa “Doña Rosa” (Signora Rosa) argentina, in ambito nostrano più conosciuta anche in virtù di una canzone di alcuni anni fa di Nino Ferrer che la descriveva cara, bella, sorridente, deliziosa, favolosa, ma anche capricciosa, sdegnosa, ambiziosa, misteriosa.
Ora, è vero che col tempo cambiano i riferimenti ed insieme ad essi si modificano anche le figure iconiche, gli stereotipi e quant’altro, ma non ne abbiano male né i (numerosissimi) lettori tedeschi, né gli altrettanto numerosi (e forse di più) lettori argentini, se preferisco continuare a pensare alla saggezza popolare veicolata dall’iconica figura resa famosa (anni sessanta del secolo scorso) dagli articoli sul Corriere della Sera di Alberto Arbasino (che di Voghera era originario), dal Servizio Opinioni della Rai (indagine svolta nel 1966), da Beniamino Placido su Repubblica (anni 80), o da chiunque altro abbia avanzato la pretesa di averla disegnata o fatta diventare famosa.
E cosa chiede alla sanità la saggezza popolare rappresentata da questa figura?
Se fossi io la suddetta, come prima cosa penserei all’età ed agli acciacchi che nel tempo questa porta inevitabilmente con sé, tenendo anche conto che la vita media si sta allungando sempre di più (e nelle donne già supera di un lustro quella degli uomini). A volte si tratta di acciacchi e fragilità ma più spesso sono all’orizzonte vere e proprie malattie croniche, a cui piace anche raggrupparsi in disdicevoli congreghe (multimorbilità, patologie croniche multiple nello stesso soggetto). In questo scenario alcune a me sembrano le esigenze preminenti.
– La necessità di sentirsi presi in carico dal servizio sanitario e sociosanitario, attraverso il proprio medico di medicina generale, oppure facendo riferimento allo specialista di fiducia, o ancora per mezzo della struttura territoriale di riferimento (casa di comunità?), o qualsiasi altro tipo di presa in carico che sia capace di coinvolgere il paziente fragile e bisognoso, senza lasciarlo solo di fronte alle proprie esigenze (anche sociosanitarie) o in balia di un “mercato sanitario” con il quale ha difficoltà a rapportarsi.
– Il bisogno di essere curati (e assistiti), dove la cura e l’assistenza vanno intese non come una sequela di prestazioni isolate o discontinue (e peggio ancora se persino inappropriate ed inefficaci) bensì come un’alleanza terapeutica, una relazione con chi è fragile (malato, infermo, disabile, vecchio, o ritenuto privo di valore sociale), una compagnia mossa dall’amore al destino della persona. Una cura che non deve avere da parte del paziente la pretesa della guarigione (obiettivo spesso non raggiungibile) ma la certezza di essere stato curato (o accompagnato adeguatamente al compimento della propria esistenza) nel migliore dei modi ragionevolmente possibili.
– La prossimità nell’approccio alla cura e all’assistenza, per tutte quelle attività che non richiedono il ricovero in una struttura protetta (come ospedale, residenza sanitaria). La casa, i luoghi della socialità (vicinato, associazioni di pazienti), le semiresidenzialità, le case di comunità, e così via, possono diventare (quando possibile) quella prossimità che favorisce l’esperienza della presa in carico e della cura. È superata invece l’idea che gli ospedali moderni debbano essere previsti “sotto casa” come in passato.
– La tecnologia e l’informatica, che se da una parte cozzano un po’ con l’età e la propensione a fare uso di tali strumenti da parte delle persone rappresentate dall’iconica casalinga, dall’altra (telemedicina, teleassistenza, teleconsulto, telediagnosi) sono mezzi utili, e forse indispensabili, per raggiungere le stesse persone, soprattutto quando non sono nella condizione di muoversi agevolmente.
– L’assistenza sociosanitaria (e financo quella sociale), perché il centro di gravità della cura della nostra casalinga adesso è il territorio, ed anche perché l’obiettivo prevalente diventa (vedi il Piano nazionale della cronicità) “il miglioramento del quadro clinico e dello stato funzionale, la minimizzazione dei sintomi, la prevenzione della disabilità, il miglioramento della qualità della vita”: cambia soprattutto, quindi, la domanda di servizi in quanto si passa dalla preponderanza dell’intervento sanitario alla prevalenza delle attività sociosanitarie e di assistenza anche sociale, materia molto più fluida e molto meno organizzata ed ancora oggi poco presente all’interno del servizio sanitario nazionale.
E, per brevità, mi fermo qui.
Alla casalinga di Voghera possono interessare di sicuro anche altre tematiche critiche che caratterizzano il nostro servizio sanitario (i suoi principi, il suo finanziamento, i livelli essenziali di assistenza, le difficoltà introdotte dalla pandemia, la scarsità di personale infermieristico, la lunghezza dei tempi di attesa per accedere alle prestazioni): nel caso, la invito a continuare a seguire le pagine del Sussidiario perché in esse tali argomenti si trovano frequentemente rappresentati
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