La reazione più rilevante all’affermazione dei partiti tedeschi di estrema destra e sinistra nel voto locale in Turingia e Sassonia è giunta dalla Volkswagen. Meno di ventiquattr’ore dopo la chiusura delle urne, il colosso dell’auto ha lanciato un warning: una “situazione seria” sui mercati potrebbe portare alla chiusura di impianti produttivi in Germania, per la prima volta in 87 anni.



La nota di Wolfsburg è chiara nell’individuare le cause di un’impasse che sta interessando “l’intero settore europeo dell’auto”. Da un lato c’è la pressione crescente di “nuovi concorrenti”: riferimento evidente ai produttori cinesi che – sia sul loro mercato, sia nei Paesi target di un export aggressivo – stanno rubando quote sempre più importanti, soprattutto nel comparto strategico delle auto ecologiche. Sul versante dei costi, invece, sta pesando in modo inequivocabile l’inflazione, post-Covid e poi da crisi geopolitiche. Questo fronte critico ricomprende in misura rilevante le richieste di incrementi salariali legate al caro-prezzo.



Per capire quanto l’allarme “verde” di Volkswagen sia più pesante di quello “rossobruno” emerso dalle urne dei Land orientali, è sufficiente rammentare che la capogruppo/prima azionista è oggi la Porsche (che condivide con Mercedes e Bmw la leadership nell’auto tedesca); ma il secondo investitore per diritti di voto è il Land della Bassa Sassonia. E a Wolfsburg la governance è ancora rigorosamente declinata nel modello della cogestione: con rappresentanze stabili dei lavoratori (e dei sindacati) nel consiglio di sorveglianza.

Il segnale lanciato da Volkswagen sembra quindi per il cancelliere “rossoverde” Olaf Scholz un preavviso assai più insidioso di quello incarnato dagli xenofobi di destra di AfD o dai sovranisti di sinistra di Bsw. E non riguarda in prima battuta le crescenti tensioni sociopolitiche nel Paese-locomotiva Ue e neppure la presunta infiltrazione della società tedesca da parte della Russia putiniana. Volkswagen – forse a nome dell’Intera “Deutschland AG” – afferma invece che il modello industriale tedesco (europeo?) va messo in sicurezza su tre fronti: l’invasione dell’auto cinese (se necessario con misure protezioniste); una transizione verde troppo accelerata e a serio rischio-autolesionismo per l’auto; una crisi energetica che – precluso a lungo termine l’approvvigionamento di gas russo a basso costo – suggerisce una moratoria sulle fonti fossili e un ripensamento radicale della rinuncia al nucleare.



Nella patria di Karl Marx la “struttura dei rapporti di produzione” preme prepotentemente sulle “sovrastrutture politiche”: soprattutto quando queste ultime perdono credibilità come istituzioni di governo dell’economia e della società. Il voto “rossobruno” è una conseguenza, non una causa della crisi. Di essa i milioni di immigrati in Germania (nella Ue) sono quasi totalmente innocenti: avendo anzi già rappresentato proprio nel Paese tedesco una soluzione ai problemi dell’industria. E se a oltre trent’anni dalla riunificazione, la Germania (l’Europa) non è riuscita a offrire a 17 milioni di tedeschi “ex orientali” pari opportunità socioeconomiche, l’errore peggiore che potrebbero commettere Berlino e Bruxelles (presidiata da una politica tedesca) è condannare il tutto come “attacco alla democrazia”.

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