Tra ossessione della morte e difesa della vita

I recenti fatti di cronaca nera ci sollecitano a riflettere su cosa sia la vita e quanto sia importante difenderla

Ancora uccidere. Uccidere altri, uccidere se stessi, uccidere chi si conosce o qualcuno in cui per caso ci si imbatta, comunque uccidere. Tutto questo è diventato tragicamente facile e vicino. Di una prossimità che fa venire i brividi. Ferisce il cuore dover riconoscere che una tale facilità non esige talora neppure ragioni plausibili. Perché spesso la spinta a uccidere non nasce da qualche malevola passione, odio, crudeltà, vendetta, gelosia, ira, interesse. No, non c’è proprio neppure bisogno di scomodare qualcuno dei sette vizi capitali. Si cancellano una, due, tante vite, così come si cancella un file dal computer.



Ma perché si uccide e ci si uccide con tale facilità? È una domanda che non riusciamo a non porci, ma che drammaticamente ci proietta sulla soglia di un mistero insondabile. Il mistero del cuore umano con la sua drammatica inquietudine e con quella inestirpabile coscienza del bene del male. Il mistero di quel malessere che scava l’anima. Il mistero di una libertà, forse ridotta a un esile lucignolo, ma non del tutto annientata dall’angoscia e dalla solitudine, una libertà capace anche di male. Di fronte alla drammatica recente vicenda di Riccardo che a Paderno ha ucciso il fratellino, la mamma e il babbo, don Burgio, il cappellano del Carcere Beccaria, intervistato da Famiglia Cristiana ha invocato il silenzio. “In questi casi ci vuole un lungo silenzio. Un’epochè, una sospensione del giudizio, perché è troppo drammatico quanto accaduto per poter essere spiegato subito. Bisogna avere pazienza, aspettare il tempo che sarà necessario. Il male interiore è profondo, non è spiegabile, c’è una sofferenza che prende proprio dentro, è un vuoto che scava dentro l’abisso”.



In silenzio e in ginocchio di fronte alla tragedia di Paderno, non riusciamo però a restarne spettatori inconsapevoli. È un fatto che una volta di più ci costringe ad accorgerci di quel “protagonismo della morte” cui Luciano Violante fa riferimento in un saggio, uscito a maggio per Boringhieri, dal titolo ‘Ma io ti ho sempre salvato’.La maschera della morte e il nomos della vita, di cui si è parlato il 23 agosto a Rimini al Meeting per l’amicizia fra i popoli. Scrive l’autore: “Nella condizione umana del nostro tempo bisogna espellere il silenzioso protagonismo della morte. Sarebbe scandaloso difendere la vita? Perché la vita deve essere difesa? Perché è in pericolo. La vita è il fondamento dell’esistenza, della conoscenza, della civilizzazione”. E sempre nel testo citato aggiunge ” Nel dibattito pubblico discutiamo del diritto di come garantire una morte degna ma non ci interroghiamo come garantire il diritto a una vita degna”.



Nell’incontro al Meeting poi, sollecitato da Andrea Simoncini, così riprendeva il tema: “Siamo circondati dalla morte. Ci sono 56 guerre in corso con migliaia di morti e feriti. Ci stiamo abituando all’idea della morte? Dobbiamo riprendere le fila del valore della vita. Il senso della vita è la lotta tra il bene e il male che non sappiamo quando finirà. C’è una ossessione della morte che ci circonda e che può essere combattuta solo da una difesa della vita”.

Può sembrare paradossale, ma se a bruciapelo qualcuno ci chiedesse cos’è la vita avremmo una risposta pronta e certa? Se al contrario ci venisse chiesto cos’è la morte probabilmente saremmo in grado di dire che è la fine della vita. Perché è la vita la grande questione! La vita non come valore astratto. Come contenuto di battaglie politiche o ideologiche. Ma la vita mia. L’esistenza. Quel percorso che mi accompagna dal primo vagito fino all’ultimo sospiro. Quella vibrante e intensa esperienza di sé che faceva domandare a Leopardi “Ed io che sono?” Perché la vita è un’esperienza, prima di essere un valore. L’esperienza dell’essere uomini. Corriamo, ci diamo da fare, inseguiamo sempre nuovi traguardi, ma se siamo attenti a noi stessi, prima o poi ci accorgiamo che ci manca sempre qualcosa. In fondo che cosa cerchiamo? Scriveva Pavese: “Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità”.

Troppo grande l’infinito, paragonato alla angustia del nostro quotidiano? Alle piccole contraddizioni che ci amareggiano? A quei conti, economici, relazionali o affettivi che non tornano mai? Basterebbe pensare a quando ci siamo innamorati e in lui o in lei c’era tutto, c’era l’infinito, il per sempre. E magari c’è ancora! O guardare all’amore smisurato per quel figlio o per quell’amico per cui daremmo la vita. Bastano questi semplici flash di esperienza per alzare lo sguardo e riconoscere che siamo fatti per l’infinito, addirittura che siamo capaci di infinito. Siamo desiderio e attesa di totalità.

Se questa è l’esperienza del vivere che almeno in certi istanti ci è dato di sperimentare, allora sì che possiamo diventare strenui e credibili difensori della vita. La passione per la vita può nascere solo dall’esperienza reale di una esistenza non ridotta ma carica di senso. Difendiamo la vita perché abbiamo imparato ad amarla nella sua totalità. E la nostra inesauribile attesa di pienezza, di compimento, di amore, ci sospinge a cercare non valori astratti da professare ma volti concreti che siano riverbero di quell’infinito che cerchiamo.

E una volta nella storia, duemila anni fa, in un luogo, in un giorno e in un’ora precisa, quell’infinito ha accettato di dare la sua vita per salvare quella di tutti gli uomini. È morto ma poi è risorto. Ed è rimasto per sempre sulla terra. E da allora tanti, tanti uomini lo hanno incontrato. E in quell’incontro continuano a sperimentare che il desiderio di totalità che ci costituisce può trovare risposta. E in questo mondo ossessionato dalla morte niente è più decisivo che custodire e far crescere nel cuore degli uomini questo desiderio.

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