Le linee guida sulla formazione dei seminaristi, che la Conferenza episcopale italiana ha proposto nei mesi scorsi e la Santa Sede ha approvato in questi giorni, sono entrate da subito nella tempesta delle polemiche per un riferimento che, già in sede di gestazione del documento, era parso quello più divisivo e capace di rallentare tutto il processo di emanazione: la possibilità che persone dichiaratamente omosessuali entrino in Seminario e possano essere ammesse al sacerdozio.
Intanto è doverosa un po’ di storia. Il problema, di fatto, non esiste: da tempi immemori le persone omosessuali diventano preti e occupano posizioni significative nella comunità cristiana senza che nessuno batta praticamente ciglio. Il Papa, in una battuta divenuta infelice per molti, sentenziò mesi orsono circa la “frociaggine” presente nei Seminari italiani. Il tema, tuttavia, esiste al di là di ogni prassi. Il punto, infatti, è che nessuno di questi gloriosi protagonisti della storia della Chiesa ha mai fatto dell’orientamento sessuale né una dichiarazione esplicita, né un elemento significativo della propria identità sacerdotale. Per cui quello che oggi troviamo posto sul tappeto da parte della CEI non è certamente niente di nuovo, ma è – al contempo – tutto radicalmente nuovo: una dichiarazione esplicita di orientamento sessuale è ritenuta compatibile con il sacerdozio ordinato della Chiesa cattolica.
La questione, a livello magisteriale, ha un precedente nell’intervento con cui, nel 2006, l’allora Congregazione per l’Educazione Cattolica, con la controfirma di Benedetto XVI, pubblica la Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri in cui si indica chiaramente che “se un candidato pratica l’omosessualità o presenta tendenze omosessuali profondamente radicate, il suo direttore spirituale, così come il suo confessore, hanno il dovere di dissuaderlo, in coscienza, dal procedere verso l’Ordinazione”.
Da quel momento mai nessun’altra parola fu detta o scritta in merito. A ciò è doveroso aggiungere il fatto che la CEI si sforzi di inserire le proprie linee guida nella scia di quell’istruzione, in quanto la soluzione prospettata dalle linee guida è un evidente compromesso: il soggetto omosessuale può essere ammesso al sacerdozio solo se non pratica più l’omosessualità, solo se la sua è una semplice tendenza. Ci sarebbe da chiosare che, a scanso di equivoci, questa è la stessa richiesta che si fa alle persone eterosessuali.
Ma allora dove sta il problema? Dove sta la tempesta? Il non detto delle polemiche di questi giorni è che la Chiesa ha tradizionalmente ravvisato una non idoneità antropologica delle persone omosessuali al sacerdozio, ritenendo la condizione omosessuale foriera di tratti incompatibili con quelli necessari alla missione pastorale. Non si tratta di omofobia o di uno stigma, ma di capire se il comportamento omosessuale strutturi delle attitudini umane che non sembrano particolarmente coerenti con la chiamata sacerdotale.
Prima di dividersi in partiti, pro o contro, indignati o applaudenti, occorrerebbe fermarsi alla serietà di quello che la Chiesa dice e che brevemente è bene richiamare: 1) nessun comportamento è neutro; ogni comportamento ci modella come persone. Il comportamento omosessuale modella delle personalità adatte al sacerdozio? 2) Uno nella vita può amare chi vuole e come vuole, ma il modo con cui ama non è uguale a zero: la libertà assoluta rivendicata dalla mentalità contemporanea genera, paradossalmente, identità definite che non sono indicate per esercitare ogni tipo di responsabilità, soprattutto religiosa.
Quindi, la questione è enorme: amare un uomo è come amare una donna, stare in una relazione omoaffettiva tratteggia identità simili a quelle che costruiscono le relazioni eteroaffettive? Portano con sé la stessa tensione alla stabilità, alla fecondità e alla responsabilità sociale?
In un mondo sereno, dove le domande non sono viste come aggressioni, si potrebbe parlare di tutto questo con libertà e giungere a conclusioni positive o negative, conclusioni che – però – poi implicano scelte nell’uno o nell’altro senso. La preoccupazione che suscitano queste linee guida, insomma, non è tanto legata alla materialità delle procedure, quanto all’assenza di una riflessione dottrinale compiuta sull’omosessualità, ma anche sul celibato e sul sacerdozio. Il vento che deve cambiare la Chiesa, ci insegna l’inquietante vicenda del modernismo, è quello dello Spirito, non della storia. La teologia pastorale non può superare la dogmatica, ma deve presidiare il campo dei sentimenti e delle emozioni che portano alla definizione di nuove domande e alla crescita delle antiche verità. In nessuna epoca della storia la Chiesa potrà mai inventare nuove verità, perché tutto si è già dato e consumato nella passione, morte e resurrezione di Cristo, nella Sua mirabile incarnazione. Altrimenti succede che si danno delle istruzioni come per le sorprese degli ovetti che si regalano ai bambini: ti aiutano a fare il gioco che vuoi, ma non sono in grado né di farti guardare in faccia le persone con cui dovrai giocare né di restituirti il gusto e la bellezza per cui il gioco stesso è nato. È una storia nota: in un tempo in cui si può fare tutto, si rischia soltanto di rimanere più soli, più delusi, più vuoti. Pieni di ideologiche vittorie e di sconcertanti affettive sconfitte.
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