Nell’ultima settimana ho viaggiato attraverso buona parte del Libano, dal centro al sud, da ovest a est. Ho chiesto a molte persone quali fossero gli effetti della guerra. E la risposta è quasi sempre stata: quale guerra? Quella iniziata a settembre dell’anno scorso o la guerra civile iniziata nel 1975?
Le cicatrici di 50 anni di combattimenti sono ovunque. La parrocchia in cui ebbe luogo l’attacco a Gemayel, che diede inizio al conflitto, è oggi un luogo dimenticato. Ma a pochi chilometri di distanza si trovano quelli che un tempo erano campi profughi palestinesi e che ora sono grandi quartieri provvisori istituzionalizzati. L’intero Paese è disseminato di questi campi, che insieme formano una popolazione di 500.000 palestinesi. Hanno lasciato Israele durante la famosa Nakba, l’esilio del 1948, e ormai da tre generazioni vivono fuori dalla loro terra. Negli anni ’70 volevano costruire uno Stato nello Stato. Ora, questa pretesa era o è quella di Hezbollah, che continua a destabilizzare il Libano, un Paese che non diventerà mai un Paese. In ogni caso, le generazioni si susseguono e la spirale innescata dalla prima guerra non si arresta.
La guerra che fortunatamente sembra essersi conclusa con la tregua entrata in vigore domenica è stata più dolorosa di quella del 1948. Quasi 50.000 palestinesi sono morti in risposta al terrorismo di Hamas che ha causato più di 1.000 vittime israeliane. Hamas è stata sconfitta. Alla fine il passaggio di potere da Biden a Trump ha provocato la “parola forte” che gli Stati Uniti avrebbero dovuto pronunciare molto tempo fa. Alla fine Netanyahu, cercando la propria sopravvivenza, si è scontrato con i membri più radicali del suo Governo.
In questo momento ci sono ancora degli interrogativi da sciogliere, ma la cosa importante per ora è assicurarsi che la tregua non venga violata. Che non ci siano più bombardamenti, che centinaia e centinaia di camion con aiuti umanitari entrino nella Striscia, che i bambini smettano di morire di freddo, che i 12.000 palestinesi la cui salute è a rischio possano ricevere cure mediche.
E dopo? Ritiro completo delle truppe da Gaza e ricostruzione. E dopo ancora? Il futuro dipende da questa risposta. Trump ha parlato della necessità di promuovere gli Accordi di Abramo, gli accordi firmati dall’Arabia Saudita e da Israele. In queste ore sta nascendo un nuovo Medio Oriente. Con l’Iran e Hezbollah indeboliti e il regime di Assad sconfitto, Tel Aviv e Riad possono accordarsi sullo sviluppo della regione, sugli investimenti in tecnologia e infrastrutture per lasciarsi alle spalle un passato di guerre e terrorismo.
Ma in ogni caso l’immensa ferita che Israele ha riaperto nel cuore del popolo palestinese rende molto difficile ottenere la pace. Il ricordo della morte di decine di migliaia di innocenti continuerà a vivere nel popolo palestinese per decenni, se non secoli. Questa ferita non porterà vera pace se non ci sarà giustizia e riparazione per coloro che hanno perso tutto, non solo la terra, ma anche la possibilità di avere una vita dignitosa. Per quanto possano cambiare i confini e i regimi politici, l’esigenza di giustizia è uno dei motori più determinanti della storia. Non può essere messo a tacere, non può essere represso, non può essere dimenticato.
Così come Israele dovrà fare i conti con il Governo Netanyahu, i palestinesi dovranno scendere a patti con Hamas, che ha sfruttato i loro figli e li ha condotti alla morte.
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