In Italia calano drasticamente le adozioni nazionali e internazionali mentre non cala il numero dei bambini che è alla ricerca di una famiglia adottiva. Il dato, portato all’attenzione dell’opinione pubblica da Maria Carla Gatto, presidente del tribunale dei minori di Milano, è stato ripreso con forza da Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera in due diversi articoli di fondo che hanno illustrato il fenomeno e ne hanno esplorato le cause.
L’analisi, sia della presidente che dell’ex direttore del Corriere, si è incentrata prevalentemente sugli ostacoli tecnici e giuridici che rendono l’adozione sempre più tortuosa e complicata, auspicando uno snellimento delle procedure e un ampliamento della platea dei possibili genitori interessati.
È evidente che esiste un problema legislativo, ma non si può certamente tacere che la questione di fondo è anzitutto culturale. Infatti, due dettagli saltano agli occhi: il ricorso sempre maggiore alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, omologa ed eterologa, e la promozione della pratica dell’utero in affitto, che – nella sua versione più caritatevole – ha preso il nome di “gestazione per altri”. Quest’ultima, va detto, non è una pratica riservata alle sole coppie omosessuali, ma riguarda trasversalmente diverse realtà affettive che vi ricorrono come sostitutivo della fecondazione assistita.
È importante, in questi casi, tralasciare gli aspetti morali di queste scelte per comprenderne la moralità che le muove. Il tema, infatti, è quello della generazione, di che cosa significhi generare. Se per secoli l’atto generativo era orientato al “tu” che era generato, al bambino da generare alla vita, oggi l’atto generativo è incentrato sull’io: sono io che genero – e che devo generare – il vero problema. È come se fosse avvenuta una rivoluzione copernicana degli affetti: prima l’amore era a servizio di un altro, di un figlio che poteva essere biologicamente mio oppure no, adesso l’amore completa me, dà un senso a me. Io, figlio mio, non ti metto al mondo perché concorro al bene di un popolo o di una storia, ma io ti metto al mondo per fare contento me, per realizzare me. Quando uno zigote comincia a moltiplicarsi nel ventre materno segue due operazioni distinte: si duplica e si differenzia. La generazione non è solo un’operazione di duplicazione di me, ma è l’introdurre nel mondo qualcosa di diverso che non è neppure detto che io sia capace di amare.
Questa è la chiave della genitorialità: il senso di contributo, di partecipazione, a una vita che non mi appartiene. Noi generiamo qualcuno che non sappiamo neanche se saremo in grado di amare. Oggi, invece, noi vogliamo il cane: un animale che siamo certi di sapere amare e che siamo certi ci darà amore indietro. È venuto meno il senso del mistero e il senso del gratuito. E per questo la generazione è diventata una pretesa invece che una proposta: io ho diritto ad un mio bambino e, se non riesco ad averlo, qualcuno me lo deve dare.
Nell’adozione questo meccanismo non regge fino in fondo: con i figli adottivi c’è sempre un punto che non tiene, un pezzo che non controlli, qualcosa che ti garantisce che non sono i tuoi. Non li hai comprati, come nell’utero in affitto, e non li hai neppure architettati tu come nella procreazione assistita: essi sfuggono, potremmo dire che radicalmente non appartengono. Nell’adozione non ci puoi mettere del tuo, né economicamente né geneticamente: sei più costretto al gratuito, all’imponderabile. Come è difficile amare gratis! Come è difficile amare a gennaio, quando tutto è ricoperto dalla nebbia e dal ghiaccio, e nulla sembra poter davvero essere a tua disposizione. È come se uno intuisse plasticamente che nella vita occorre una fatica, un’ultima fatica, per essere davvero adulti e venire al mondo. Nessuno sa amare la terra di gennaio, perché il contadino – a gennaio – sa che l’unico modo di amare è quello di attendere, di avere fiducia, di non pretendere frutta o verdura laddove adesso tutto sembra morto o dormiente.
Eppure, è a gennaio che il contadino ritrova il senso della propria casa, il senso di sé, dei propri bisogni. Paradossalmente, a gennaio si scopre che è nell’aridità di molte sperdute giornate in cui non possiamo gestire gli altri che ritroviamo sinceramente quello strano senso di sé che speravamo fossero i figli a darci. Sono così diversi, così lontani dai nostri schemi, a volte forieri di dolori indicibili. Eppure, così veri, così spietati, così lucidi nel ridonare ai genitori l’esatta misura dell’amore. A ben vedere si potrebbe dire che è a gennaio che uno impara a sperare la primavera.
Ed è in fondo questo l’unico problema che spiega la grande questione del calo delle adozioni: la crisi della speranza. In un modo disperato, io voglio avere cose soltanto mie. In un mondo disperato, io non so perché dovrei investire su di te che non mi appartieni e che certo mi deluderai. In un mondo disperato, io cerco solo un mio piccolo clone. Un fagottino da amare. Rinunciando all’avventura più grande: quella di essere così tanto privo di tutto, così tanto povero e senza nulla, da essere pronto ad accogliere il volto che non mi aspetto. Il miracolo che non avevo neppure osato sperare.
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