Salire sui ponteggi della Cappella Bardi nella basilica fiorentina di Santa Croce, dove stanno concludendosi i restauri degli affreschi di Giotto, è una doppia esperienza. Innanzitutto ci si misura, vis à vis, con la fisicità della pittura di quel genio e con le sorprendenti soluzioni tecniche che mette in campo. In secondo luogo siamo potentemente calamitati dentro l’avventura umana di San Francesco: siamo alle soglie dell’ottavo centenario della morte del santo (1226) e quindi il restauro di questo capolavoro curato da Maria Rosa Lanfranchi dell’Opificio delle pietre dure assume un significato e un’importanza particolari.
All’interno della stessa Cappella è abitualmente custodita un’altra celebre opera dedicata a San Francesco, la cosiddetta Tavola Bardi, dipinta almeno mezzo secolo prima di Giotto. Oggi è esposta nel transetto, appena al di qua delle impalcature che chiudono la Cappella. Questa coabitazione è spunto per una riflessione che riguarda proprio la figura del santo. Fin dai tempi immediatamente successivi alla sua morte era scattata una corsa a dare rappresentazione della sua figura umana. Al 1228 risale l’affresco di Subiaco. Allo stesso anno la tavola perduta di Bonaventura Berlinghieri, da lui stesso replicata nel 1235 (oggi conservata a Pescia). A partire da questi due prototipi è un moltiplicarsi incredibile di immagini, dove il santo è rappresentato frontale contornato in tanti casi da scene della sua vita. Commovente tra le tantissime raffigurazioni quella realizzata direttamente sulla tavola sulla quale abitualmente dormiva e sulla quale era morto (“Hic michi viventi lectus fui et morienti”, si legge sul cartiglio tenuto in mano dal santo): oggi è custodita alla basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi.
Cosa testimonia questo bisogno di rappresentare replicandola la figura del santo? Francesco è proposto in questa prima fase con un realismo che può apparire ai nostri occhi quasi brutale: non si sentiva la necessità di abbellirlo in virtù della sua santità. Si era imposto come presenza concreta, reale, terrena e pubblica e come tale viene quindi rappresentato senza edulcorazioni. Poi, a partire dal ciclo di Assisi sul finire del 1200, era arrivato Giotto e con lui ci troviamo davanti ad un Francesco non meno reale, ma certamente diverso. Per dirla con criteri mondani, più “presentabile”. Giotto era stato chiamato con il compito di mettere in immagini la biografia ufficiale che azzerava d’autorità tutte le precedenti biografie del santo, la Legenda Maior scritta nel 1263 da Bonaventura da Bagnoregio. Da grande artista, Giotto non solo non si appiattisce sull’input ricevuto, ma rilancia. E rilancia alla grande. Scena centrale degli affreschi della Cappella Bardi è quella delle esequie del santo. Oggi grazie ai restauri si può vedere come l’attenzione di Giotto si concentri nel dipingere i volti del santo e degli astanti. Osservata da vicino la pittura si distende sui volti dando la sensazione di una fisicità nello stesso tempo tenera e reale. Uno dei punti chiave della biografia ufficiale di Bonaventura era l’affermazione del miracolo delle Stimmate, sul quale erano state avanzate interpretazioni diverse. Giotto ne approfitta per dar vita ad un dettaglio di clamoroso realismo: quello dell’incredulo Girolamo (unico laico inserito nella scena) che verifica la ferita nel costato di Francesco infilandovi le quattro dita.
Fuori dalla Cappella, visibile fin dal fondo della chiesa, aveva dipinto la scena della Stimmate con il santo inginocchiato che con una stupenda rotazione si gira verso il Cristo-Serafino che gli appare trasmettendogli le cinque ferite. Difficile per chiunque, davanti ad un’immagine come questa, dubitare che le cose non fossero andate davvero così.
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