“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… Benedetto l’uomo che confida nel Signore”. L’alternativa, posta senza mezzi termini da Geremia, è decisamente il punto di maggior provocazione della Liturgia odierna. Quella del profeta, però, potrebbe apparire un’espressione controversa e persino in contraddizione con la novità dei rapporti resa possibile da Cristo. Chi è l’uomo di cui parla Geremia e nel quale è bene non confidare?
Sinteticamente potremmo dire che è l’uomo davanti allo specchio. È l’uomo forte, che fa riferimento solo a se stesso, che “non deve chiedere mai” e che, senza scrupoli, ha imparato a sostituirsi a Dio. È quello che ha sempre bisogno di un nemico da combattere per credere di essere vivo. È quello che crea attorno a sé quel clima avvelenato di schieramenti nel quale gli altri sono portati a domandarsi: “Ma sarò dalla parte giusta?”.
È l’uomo che ignora quelli che gli hanno riferito avere una posizione differente dalla sua e che ricopre di insinuazioni, illazioni, allusioni, per demolirli a distanza. Astuto, sospettoso, insofferente, in realtà è un debole, sempre bisognoso di circondarsi di gente pronta ad annuire ogni volta che parla.
Ciascuno potrebbe dare un nome a chi riconosce con queste caratteristiche, ma dobbiamo anzitutto ammettere che c’è una parte di quest’uomo in noi. L’uomo in cui non confidare spesso esce allo scoperto quando tutto sembra filare via liscio, quando le cose ci vanno bene: i nostri progetti si realizzano, la vita è tranquilla, le difficoltà sono in pausa.
Iniziamo così a pensare di potercela cavare da soli risparmiandoci la confidenza nel Signore. Confidenza descritta da Gesù nel Vangelo di oggi nel rivoluzionario metodo delle beatitudini. L’uomo che confida nel Signore, infatti, è povero, affamato, nel pianto, odiato, disprezzato a causa di Cristo (cfr. Lc 6,17.20-26). Anzitutto povero però, nel senso pieno della parola, come ebbe a descriverla don Giussani: “Poveri: certi di alcune grandi cose. Perché povertà è essere certi? Perché la certezza vuole dire un abbandono di sé, vuole dire superamento di sé, vuole dire che io sono piccolino, sono niente, e la cosa vera e grande è un’altra: questa è la povertà” (Luigi Giussani, Certi di alcune grandi cose, BUR, Milano 2007, p. 385).
Ciò che permette di non confidare nell’uomo forte è questa certezza di dove risiede la consistenza della nostra vita. Chi mi rende veramente me stesso? Chi è disposto a pagare di persona perché io faccia tutto il percorso che mi permette di essere veramente in pace?Chi non accetta di farci sconti sull’essenziale in modo che “la ricompensa grande nel cielo” possa affacciarsi già sulla terra? Cristo è il vero modello delle beatitudini, l’unico che può indicare sé stesso come modello, come tipo umano da seguire.
Per questo è lui stesso a dettagliare la maledizione di Geremia: “Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti”.
L’alternativa da cui abbiamo preso le mosse ci si presenta, dunque, con una novità: Gesù ha deciso di attraversarla tutta, vincendo dal di dentro il grande tranello, e riempiendo di fascino la confidenza in lui. A noi resta “solo” l’arte della resa, per non smentire ciò che il battesimo ha già realizzato concedendoci di stare dalla parte giusta.
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