Com’è difficile accettare i cambiamenti, accogliere con speranza il tempo che passa e che porta la vita in tornanti a volte inevitabili, a volte sorprendenti. Lo shock con cui le cancellerie del Vecchio continente hanno ascoltato l’intervento del Vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance alla conferenza sulla sicurezza di Monaco, in cui il politico americano ha descritto l’Unione europea come un’organizzazione lontana dai valori di libertà e pluralismo tipici della cultura americana, in fondo racconta questo: l’impreparazione a prendere atto che le cose cambiano, si trasformano. E raramente tornano come prima.
Questo vale certamente per i rapporti tra quelle che un tempo erano definite le due sponde dell’Atlantico, ma vale anche per la situazione tra israeliani e palestinesi o per le conseguenze dell’invasione dell’Ucraina: c’è un prima e c’è un dopo. E il dopo non è più come il prima. L’esistenza di ciascuno è lì a insegnare che, si tratti di un tumore o di un lutto, della fine di un amore o di un mutamento nelle situazioni di lavoro e di amicizia, nulla si riavvolge, nulla resta intatto: tutto cambia.
L’uomo è un essere che lotta contro il tempo: si illude di poter riavere indietro anni e occasioni perché cambia partner o fa un figlio, perché si mette a dieta o si butta in un amore insperato, perché cambia taglio di capelli o giro di amicizie. Eppure, nessuno è mai riuscito ad aggiungere neppure un’ora alla propria vita. E questo, in fondo, è chiaro a tutti: niente si può fare contro l’inesorabilità del tempo e della storia. L’orologio dei rapporti tra Stati Uniti e Paesi occidentali non può tornare al 1945, le nostre case non possono tornare a essere allegre e liete come quando c’erano “loro”, c’era “lui” o c’era “lei”.
Ed ecco che tutto è pervaso da una balorda nostalgia. La stessa che dà il titolo al brano che ha vinto la settantacinquesima edizione del Festival della canzone italiana, un brano apparentemente già sentito, banale o incolore. Difficilmente, però, qualcosa può trovare consenso se questo qualcosa non intercetta – anche solo per negazione – le aspirazioni più profonde del cuore.
La nostalgia raccontata da Olly, questo il nome del ventitreenne che ha trionfato a Sanremo, è quella che afferra l’animo quando – in una giornata affrettata e confusa – si è sorpresi dal ricordo di qualcuno che si è allontanato, che non c’è più. Qualcuno di cui si cerca la voce per casa mentre cucina cantando, mentre compie gesti banali ma così familiari. Qualcuno per cui si apparecchia inconsciamente la tavola e la cui assenza è così forte da far accendere la televisione per trovare un qualche sollievo, una qualche distrazione.
Tutti veniamo da una storia di rapporti e di volti che in parte non ci sono più e tutti ne sentiamo la mancanza. La pace, in Palestina come in Ucraina, tra le mura domestiche come sul luogo di lavoro, non è rimettere le cose a posto, stendere un trattato, riportare la realtà indietro nel tempo: la pace nasce sempre dal riconoscere che il tempo di cui davvero disponiamo è il presente. È oggi lo spazio in cui affrontare la sofferenza, rispondere al dolore, superare la nostalgia.
Eppure – continua la canzone – questa nostalgia è balorda, strana. Perché razionalmente non ci dovrebbe essere, perché si intuisce che riguarda ben altro da quello che – a una prima impressione – appare. “Come te lo devo dire – dice Olly – sta vita non è vita senza te”. Quello che ci manca è un Tu, Qualcuno da cui ci siamo sentiti amati, che ci ha dato sicurezza e bene, con cui abbiamo costruito qualcosa di importante.
Certamente è l’America del Secondo dopoguerra, la Chiesa della nostra infanzia, la compagnia che ci ha accompagnato durante l’adolescenza, l’amore che ci ha toccato il cuore. Ma c’è di più, c’è stato di più: tutto questo non era altro che il riverbero – il segno – di un altro Tu.
Il punto è che c’è stato un momento in cui ognuno di noi ha incontrato un Mistero, un bene radicale e gratuito. E adesso ciò che temiamo è che quel Mistero non ci sia più. Perché aveva i tratti di quella circostanza, i lineamenti di quella faccia, le condizioni di quel dato storico. Com’è grande la paura di essere stati abbandonati in mezzo alla strada, pieni di ferite e di ricordi, pieni di domande e di istanti che non tornano!
La giustizia, dice la Bibbia all’inizio dell’Esodo, comincia sempre da Qualcuno che si ricorda del nostro dolore, da Qualcuno che ascolta il nostro grido. Per questo la Chiesa, ogni venticinque anni, dona al mondo la Grazia del Giubileo: per dire all’uomo che Dio si ricorda di Lui ed è sempre pronto, sempre in allerta, per riprendere l’iniziativa.
Più è grande la nostalgia, più è grande la speranza che Qualcuno ricominci dove tutto sembra essersi interrotto. Più è grande il dolore per quello che è accaduto, più si apre lo sguardo per intercettare quello che accadrà. “Anche se una donna si dimenticasse del suo bambino – dice un salmo – io non ti dimenticherò”.
È questa la promessa che è stata fatta alla nostra balorda nostalgia, è questo che uno dovrebbe gridare sui tetti o raccontare nelle piazze. Il resto, come dice Olly concludendo la canzone, non è stato inutile, non è stato vano: il resto, ogni scelta della storia e ogni tenerezza dell’Io, è stata tutta vita. Qualcosa che ha dato forma e consistenza al desiderio che siamo oggi e che è ancora lontano dall’aver concluso il suo cammino.
Anzi, nei rapporti politici come in quelli di tutti i giorni, siamo solo all’inizio: pieni di strada da fare e di balorda nostalgia.
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