“Le conseguenze economiche della pace” è il titolo di un libro polemico, pubblicato nel 1919 da John Maynard Keynes e divenuto un bestseller dell’epoca. Giovane economista di Cambridge, Keynes era stato aggregato alla delegazione britannica alla Conferenza di pace di Versailles, che però lasciò prima della firma dei trattati. Non volle condividere l’approccio ottocentesco che vide le potenze vincitrici contendersi bottini territoriali e imporre pesanti riparazioni di guerra alla Germania, senza delineare misure minime volte alla ricostruzione e al futuro sviluppo di un’intera Europa devastata.



Per Keynes la “fine della guerra” (la prima “mondiale”) affrontata in modo sbagliato – senza una visione geoeconomica aperta e innovativa – rischiava di far “perdere la pace” anche ai vincitori militari. E, soprattutto, di trasformare i vinti in poveri senza speranza, salvo quella di vendetta. Ciò che puntualmente si concretizzò nell’arco di un ventennio, punteggiato dall’iperinflazione in Germania, dalla Grande Depressione americana, da crisi valutarie e crolli di Borsa a ripetizione.



Un falò che partorì il nazismo in Germania e il fascismo in Italia, abbandonò la Russia alla deriva staliniana, lasciò che il Giappone avanzasse nella modernità sulla vie del nazionalismo militarista mentre i vecchi imperi coloniali europei diventavano obsoleti senza accorgersene.

Archiviata una pace “non giusta”, Keynes si dedicò a studiare le crisi economiche e finanziarie degli anni 20 e 30 del secolo scorso. L’elaborazione innovativa delle sue teorie macroeconomiche accompagnò e in parte ispirò il New Deal di Franklin Delano Roosevelt: imperniato sugli investimenti pubblici finalizzati a ribaltare cicli recessivi  e – più in generale – sul ruolo irrinunciabile della politica economica nello sviluppo di una democrazia di mercato.



Il “manuale di istruzioni” di Keynes modellò largamente il piano Marshall e la ricostruzione dell’intera Europa occidentale dopo il secondo conflitto mondiale. Ma ancora nel 1944 era stato lo stesso Keynes ad architettare gli accordi di Bretton Woods: basi di un nuovo “ordine finanziario mondiale” incentrato su un nuovo Fondo monetario internazionale.

L’Europa del 2025 sta affannosamente tentando di indovinare le conseguenze economiche di una pace incerta e faticosa, che si profila fra Russia e Ucraina, mentre anche Medio Oriente e Asia stanno cercando nuovi equilibri. Questo cinque anni dopo l’inizio della pandemia seguita dalla crisi geopolitica: cioè al termine della “Terza guerra mondiale a pezzi” additata da papa Francesco prima ancora che iniziasse.

La lezione di Keynes sembra tornare attuale, nel metodo e nel merito. Anzitutto nell’avvertire che una pace sbagliata può essere pericolosa e dannosa come la guerra che l’ha preceduta.

Nel metodo, il keynesismo ricorda – oggi come un secolo fa – che l’economia lasciata a se stessa difficilmente si struttura in equilibri autonomi e solidi. E non appare affatto teoria dopo un quarantennio di turboliberismo divenuto via via egemone e autoreferenziale e a quasi vent’anni da un primo collasso della finanza globale, alla fine non curato a dovere. La politica degli Stati e delle loro organizzazioni internazionali sembra avere il diritto-dovere di recuperare ruolo e primato sulla funzione di pura regolazione tecnica di flussi e meccanismi dell’economia.

Nel merito è difficile non vedere come una proposta forte come quella contenuta dal Rapporto all’Ue preparato da Mario Draghi – su cui appare modellato anche il piano ReArm o lo stesso programma economico del nuovo Governo tedesco – non risalga al bazooka dell’intervento pubblico immaginato da Keynes e poi sperimentato. Nulla esclude, ovviamente, che venga tenuto vivo il macro-obiettivo della transizione verde, piuttosto che quello della digitalizzazione (non solo quella dei droni, ma soprattutto quella dell’education e della valorizzazione del capitale umano).

L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura, ripeteva Roosevelt agli americani nella sue celebri chiacchierate al caminetto radiofonico del sabato. Gli europei di oggi devono solo aver paura di sbagliare la pace. Un secolo dopo Versailles non hanno il diritto e non se lo possono permettere.

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