Il dono di vedere con il cuore

Rischiamo di pensare che l’urgenza sia sempre fuori di noi. Ma così dimentichiamo la promessa fatta ad Abramo e la trasfigurazione di Cristo

Ogni giorno siamo intasati da parole e opinioni su ciò che accade attorno a noi. Ci sono esperti per qualsiasi argomento: guerra, pace, clima, politica, ambiente, sport, storia, amore, lavoro… e molte delle riflessioni che propongono sono davvero interessanti. Poi ti capita di leggere frasi come queste: “In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: ‘Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle’ e soggiunse: ‘Tale sarà la tua discendenza’” (Gn 15,5) e ti viene il sospetto che le vere questioni siano altre, rispetto a quelle che ripetono tutti.



Dio provoca Abram sulla capacità di fecondità della sua vita, su ciò che potrebbe nascere dal suo sì, e lo fa con un’esagerazione: il numero delle stelle in cielo. In nessuna delle analisi che sentiamo su ciò che accade attorno a noi vediamo una stima tale per ciò che c’è in noi. Dio non sembra preoccupato delle circostanze, ma che l’uomo fiorisca, perché solo la maturazione di noi potrà essere un contributo decisivo anche per ciò che c’è attorno a noi.



È ciò che san Paolo, con toni drammatici, scrive ai cristiani di Efeso: “Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” (Ef 3, 17-19).

Il rischio, infatti, è di pensare che l’urgenza sia sempre fuori di noi. Ci buttiamo a capo fitto a risolvere i problemi del mondo, a disquisire sui massimi sistemi, a far rientrare tutto in schemi chiari e precisi che ci illudono di poter gestire la realtà e, un istante dopo, a far fuori chi non la pensa come noi.



Questo è il “ventre” di oggi, di cui parla Paolo, e che è sempre pronto a diventare l’idolo più simpatico. In effetti dà proprio la sensazione di essere pieni, sazi, a posto, perché abbiamo detto o fatto la cosa giusta. È la caratteristica delle “cose della terra”, quando riescono a farci dimenticare di guardare il numero delle stelle in cielo. Pare, talvolta, di essere ingaggiati in una grande maratona a dimenticare noi stessi.

Per questo abbiamo bisogno della provocazione che la Chiesa ci lancia durante la quaresima. L’episodio della trasfigurazione, che ascoltiamo in questa seconda domenica, mostra il metodo per stare davanti alla realtà: il silenzio carico di una Presenza. La nube che avvolge Pietro, Giacomo e Giovanni, li spaventa. Non basta nemmeno la presenza di Cristo per evitare la paura, forse segno di una familiarità con il Mistero ancora da attendere.

“Dalla nube uscì una voce, che diceva: ‘Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!’. Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto” (Lc 9, 35-36). Non avevano mai provato un gusto tale per il silenzio. Non c’erano parole adatte, non riflessioni adeguate, nessuna analisi efficace, solo il silenzio era in grado di custodire ciò che avevano visto, con tutti gli occhi di cui l’uomo è dotato: quelli della ragione e quelli dell’affezione.

Per la prima volta si erano accorti di poter vedere con il cuore. L’avevano già sperimentato, ma adesso ne avevano finalmente preso coscienza. Chissà cosa si saranno domandati in quel silenzio. Probabilmente la stessa cosa contenuta nella domanda di Abram dopo la promessa da parte di Dio di una terra: “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?”.

Avranno avuto il desiderio di avere per sempre la verità, svelata davanti ai loro occhi, dell’intimità di Dio. E l’avranno, ma non prima della croce. Ecco cosa accade nella persona quando si decide a non mettersi più fra parentesi. Converrà raccogliere la sfida, per dare un reale contributo al mondo.

 

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