Quel ponte insidioso fra risparmio e ReArm

Non può destare una certa preoccupazione il fatto che l'Ue voglia incentivare la trasformazione di risparmi in investimenti mentre si parla di riarmo

La Commissione europea stringe nelle stesse ore su ReArm e su Savings & Investments Union (Siu), nuovo “compact” di misure volte a mobilitare il risparmio degli europei verso investimenti e imprese. E il legame politico fra due dossier in teoria distinti è stato reso visibile giusto ieri anche dell’ex Premier Mario Draghi, che ha presentato al Parlamento italiano il suo Rapporto sulla competitività Ue alla luce del riarmo europeo in cantiere.



Per Draghi non vi sono dubbi: la via maestra del finanziamento del piano di costruzione di una difesa europea è l’indebitamento diretto dell’Europa attraverso l’emissione di eurobond e anzi ReArm è l’occasione propizia per aprire ufficialmente l’era dei bond “del Governo europeo”. Non è una novità: l’ex Presidente della Bce aveva raccomandato lo stesso schema nella proposta originaria di Recovery Plan post-Covid. Ed è un framework non incoerente con la finanza libero-mercatista che ha sempre ispirato il Draghi economista, tecnocrate, banchiere d’affari e infine Premier.



Quindi, l’Ue dovrebbe lanciare senza più esitazioni titoli obbligazionari a rischio contenuto (quello garantito da un alto rating d’agenzia) e a rendimento “fair”, sostenibile in termini medio lunghi. Risparmiatori individuali e investitori istituzionali non potrebbero non sottoscriverne per i loro portafogli (e in fondo la domanda di ReArm non raggiungerebbe neppure i mille miliardi di euro). E allora perché Bruxelles vuole varare in tutta fretta una “legge comunitaria sul risparmio”?

Fra le linee-guida che filtrano le incertezze sono prevalenti: sia sugli obiettivi che sugli strumenti. La premessa è che il 70% dei risparmi finanziari delle famiglie europee sono detenuti sotto forma di depositi bancari e che occorrerebbe aumentare la quota di investimenti in “strumenti d’investimento”.



Qui l’obiezione è davvero macro: l’Europa ha una finanza storicamente bancaria, tanto che la Seconda Direttiva Ue fu la prima vera “legge comunitaria” post-Maastricht, abbrivio dell’unione monetaria. Il tentativo di abbattere o almeno ridurre il bancocentrismo europeo è stato intenso e prolungato, ma se la situazione è quella descritta (con uno sviluppo non maggioritario di fondi comuni, fondi pensione, polizze e altre formule di gestione di risparmi e capitali) le ragioni dell’insuccesso non sono un mistero.

Il crack Lehman del 2008 ha simboleggiato la fragile inaffidabilità strutturale di quel sistema. Rilanciare il mantra della finanza di mercato nel 2025 appare decisamente fuori tempo: anche se non è del tutto sorprendente un ennesimo tentativo di ripartenza da parte di intermediari e regolatori che su quella finanza hanno costruito il proprio potere finanziario o istituzionale, sebbene non sempre sinonimo di autorevolezza e credibilità. Ora una sfida strategica persa dal mercato ed eurocrazia nell’arco di quarantennio verrebbe rilanciata per decreto?

Mentre le indiscrezioni parlano di “incentivi” per l’investimento in non meglio precisate politiche di sviluppo, non è parso un segnale rassicurante che un esponente di quella euro-finanza – l’economista Francesco Giavazzi, consigliere dello stesso Draghi a palazzo Chigi  – abbia quantificato nel 4% la quota di risparmi che “sarebbe opportuno”, “dovrebbe” essere indirizzata subito verso investimenti  (si suppone quelli di ReArm, poi si vedrebbe).

Nessuno scandalo a riscoprire il dirigismo economico-finanziario: nei fatti il Recovery Plan e ReArm sono stati ricalcati sulle dottrine stataliste keynesiane. Il punto è invece se a sbandierare politiche neo-stataliste (anche se ammantate di vecchi mantra europeisti) e dichiaratamente dirigiste sono profeti liberisti irriducibili da un trentennio. Poi l’Italia è un Paese che è sopravvissuto anche a una sorta di rapina legalizzata di Stato come il prelievo forzato dello 0,6% dei depositi bancari deciso in una notte dal Governo Amato quando la lira era sotto attacco di George Soros (poi gli esecutivi Amato e Ciampi decisero le grandi privatizzazioni, realizzate in seguito dall’esecutivo Prodi).

La questione – ora come allora – appare più politica che economica: è l’apparente “fuga in avanti” dell’eurocrazia (divenuta una sorta di “governo in esilio”) a mantenere il controllo dei grandi flussi finanziari. L’obiettivo sembra quello di rendere definitiva la cessione di sovranità già avviata con l’euro.

I tratti ancora opachi della Siu non sembrano affatto fugare i sospetti di un ennesimo “cordone democratico” allestito da forze politiche “europeiste” – soprattutto liberali e socialiste – al fine di resistere all’opposizione ovunque: in Europa e nei suoi singoli Paesi-membri, come negli Usa. Del resto lo stesso ReArm sarà sui tavoli del Consiglio Ue senza un voto formale da parte dell’Europarlamento. Vedremo ora per Siu.

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