Perché Dante con tanta certezza aveva assegnato a Cimabue un ruolo da caposaldo nella storia della pittura, per quanto presto oscurato da Giotto? In che senso Cimabue in un frangente, certamente decisivo per tutti gli sviluppi a venire, come scrive Dante aveva tenuto “lo campo”?
Visitando la meravigliosa mostra-dossier che il Louvre ha dedicato in questi mesi al grande pittore fiorentino si può trovare una risposta inattesa. In una vetrina è infatti esposta la traduzione latina di un trattato arabo di ottica, che aveva avuto una grande diffusione nel corso del XIII secolo. Il titolo latino è De aspectibus. L’autore, Ibn al Haytham detto Alhazen, era vissuto due secoli prima e aveva introdotto nuove teorie ottiche che rovesciavano quelle ipotizzate da Euclide e Tolomeo. In sostanza Alhazen, con un metodo basato sull’esperienza, aveva divulgato una concezione innovativa sul funzionamento dell’occhio umano: i raggi luminosi venivano catturati dalla vista e non emessi da essa come creduto fino ad allora.
In sostanza, prima si pensava che fosse l’occhio umano a dar forma alla realtà, ora invece si dimostrava che era la realtà a imprimersi attraverso i raggi luminosi nella nostra vista.
Che cosa c’entra Cimabue con questa novità di carattere scientifico? Detta in termini molto semplici, con Cimabue nella storia dell’arte si fa largo un primato dell’osservazione delle cose e quindi della realtà. Non ci sono nessi diretti tra la nuova teoria dell’ottica e la vicenda del grande artista. Ci sono però delle evidenze, che stupiscono e commuovono.
La mostra parigina, che per quanto eccezionale sceglie il profilo “basso” di mostra-dossier, ha un titolo semplice e molto significativo: Voir Cimabue. “Vedere Cimabue”, prima che interpretarlo. Ed è caratterizzato da un affascinante spirito di osservazione l’approccio del curatore Thomas Bohl e della squadra molto autorevole di storici dell’arte che lui ha aggregato al progetto. Ad esempio Bohl analizza ed elenca le novità che l’artista introduce nel motivo della Croce dipinta, genere molto diffuso nel 1200 in particolare nelle chiese francescane.
Scrive il curatore che “Cimabue innesca un processo di umanizzazione della figura sacra, testimoniando la vitalità della sua innovazione”.
La realtà bussa alla porta della pittura: nel suo percorso Cimabue abbandona il modello della geometrizzazione astratta delle forme. Ad esempio nel dipingere gli occhi chiusi di Cristo crocefisso le palpebre vengono separate dall’arcata sopracciliare, e così spuntano per la prima volta i segni sottili delle ciglia. Fino ad allora il linearismo puro con cui era stato trattato lo stesso particolare, escludeva questo livello di verosimiglianza. Lo stesso vale per i ciuffi di peli sotto le ascelle di Cristo crocefisso, che Cimabue dipinge sempre per un bisogno di umanizzare l’immagine.
Nella Croce di Arezzo la testa di San Giovanni è tanto appesantita dal dolore da piegare drammaticamente il polso su cui si appoggia. Viste da vicino le pennellate tendono sempre più ad accompagnare la forma degli elementi rappresentati: curve nel caso di un collo, rette per dipingere il naso.
La realtà detta il metodo: è il mondo nuovo di Cimabue, nella sua verità ancora nuovo e sorprendente pure per noi.
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