“Il lavoro non è il marchio dell’inferiorità sociale, come pensava l’antica cultura pagana, ma è la vocazione – che è di tutti – ad associarsi all’opera della creazione, secondo l’alto disegno di Dio. Il lavoro ha dunque un’origine divina e un inalienabile valore religioso, derivando immediatamente dal fatto che ogni uomo è immagine viva del suo Creatore, ed è chiamato a collaborare con lui nella creazione di un mondo che sia adatto alla vita e allo sviluppo dell’uomo”. Queste le parole del cardinale Giacomo Biffi (1928-2015) nella Cattedrale metropolitana di San Pietro, a Bologna, il 1° maggio 1988.
Il testo è tratto da La festa della fatica umana (Edizioni Studio Domenicano, 2022), che riunisce le omelie di Biffi in occasione del 1° Maggio dal 1985 al 2003, gli anni in cui è stato arcivescovo di Bologna: la raccolta presenta in modo sintetico il suo magistero sulla dottrina sociale della Chiesa, ispirato alla figura di San Giuseppe. Riflessioni di estrema attualità, che “non sono mai astratte, affermazioni di puro principio, ma sono sempre ben incarnate nel tempo, di cui egli è acuto osservatore”, come scrive nella Prefazione al volume il cardinale Matteo Maria Zuppi, secondo successore di Biffi alla guida della Chiesa petroniana.
Nella medesima omelia del 1° maggio 1988 Biffi sottolinea che “nel giorno dedicato in tutto il mondo all’esaltazione del lavoro e della sua dignità”, è significativo per i cristiani radunarsi invece “attorno all’altare”, ricercando “un incontro con Cristo”, partecipando “al suo sacrificio”. Ciò non significa disprezzare “le altre forme di celebrazione: i cortei, i discorsi, i manifesti, lo sventolio di bandiere”. Ma tali manifestazioni sono “insufficienti e in definitiva un po’ vuote”. Uno sguardo di fede refrattario “a ogni mito, a ogni culto della personalità, a ogni ricetta ideologica”, ce ne fa cogliere “l’incompletezza e l’intima vanità”. Un credente “ha bisogno di nutrirsi di verità, non di miti; vuol incontrarsi con Colui che, unico, è sempre vivo e reale, in mezzo al tramonto di tutte le infatuazioni”. Nell’omelia del 1° maggio 1995 preciserà: “Questa è un’ora di preghiera e di riflessione, che ogni anno ci è regalata dalla provvidenza paterna di Dio come un piccolo aiuto per ‘leggere’ la complessa realtà del mondo del lavoro alla luce non delle varie ideologie, che sono tutte effimere, ma della verità che non teme smentite”.
Manca più di un anno alla caduta del Muro di Berlino ma Biffi, ancora nella predica del 1° maggio 1988, prende atto che ormai “il comunismo è praticamente in via di estinzione”. Tuttavia “al tempo stesso riesce a sposare con molta disinvoltura le sue dichiarate propensioni collettivistiche con lo stile di vita individualista, borghese e decadente proprio delle società occidentali”. Riprenderà la riflessione il 1° maggio 1989: “Il marxismo è finito […] Dopo cento anni di funeste illusioni, dopo un immenso e inutile mare di lacrime, dopo un’alluvione di sangue incolpevole che non ha paragoni nella storia, oggi ci si rende conto che è stato tutto un errore”. Riconosce che “il marxismo è stato una fede, un’etica, una speranza per tanti nostri fratelli, anche generosi e ben intenzionati”. Ma, aggiunge, “il rischio che io temo di più è che questa crisi ideologica faccia approdare molti uomini – che pure avevano un ideale, anche se inconsistente – al male peggiore dell’utilitarismo spicciolo, del pragmatismo che non ha traguardi, dell’edonismo che non ha principi”. Quale dunque il compito dei credenti? La testimonianza “in tutti i luoghi segnati dalla fatica umana”, tornando a proporre con più vigore e più convinzione […] le intramontabili certezze di sempre: la riscoperta di un Dio che ci è Padre, l’incontro con Cristo unico Signore e Salvatore […] la prospettiva della vita eterna, senza di che la vita presente presto o tardi diventa assurda e disperata”.
La sua lucida e profetica visione lo induce anche, il 1° maggio 1989, a mettere in guardia su un fenomeno molto preoccupante “che si fa sempre più imponente nel mondo capitalistico […] l’incidenza sempre più estesa e determinante nell’organizzazione sociale di un potere finanziario chiuso nei suoi giochi, senza veri legami con l’impegno produttivo e con il mondo del lavoro”. Così “la proprietà di un’azienda, e quindi la sua sorte, finisce in mano sempre più frequentemente ad amministrazioni lontane, dominate da altre società a loro volta sotto il controllo di terzi, con un sistema di appartenenze multiple e di interdipendenze così complicato e incontrollabile, che alla fine non si sa proprio dove stiano le sorgenti decisionali”.
Dieci anni dopo la situazione non sembra cambiata, al punto di affermare, il 1° maggio 1999: “Il primato dell’uomo sulle cose, sulle strutture burocratiche, sul complesso mondo dell’economia, stenta ancora ad affermarsi […] Predomina ancora in Italia una forte mentalità statalista […] Il principio di sussidiarietà – chiaramente enunciato da Pio XI fin dal 1931 – attende ancora di essere recepito e diventare efficacemente operante”. Preoccupava Biffi anche l’accentuarsi in modo sempre più netto della cosiddetta “globalizzazione dell’economia”. Ormai il mercato e il potere finanziario “non conoscono più confini, e danno l’impressione di non tollerare nessun influsso e nessun controllo esterno al proprio ambito”.
Ma qual è la “società giusta e illuminata” che il cristiano è chiamato a costruire? Lo spiega nell’omelia del 1° maggio 2002: “Quella che nelle sue leggi e nelle sue istituzioni si dimostra convinta che il lavoro umano è una ricchezza più grande del capitale; ed è anche persuasa che l’uomo (con la sua dignità e le sue necessità) è un valore più alto di ciò che fa e di ciò che produce”. Ciò significa che “in un mondo dove molte illusioni sono cadute, dobbiamo saper ridare ai nostri contemporanei l’energia della speranza, rendendo così possibile […] superare l’aspirazione solo al benessere effimero, l’imperversare di un edonismo insaziabile, il dogma ossessivo di un libertarismo senza confini, senza traguardi plausibili e senza saggezza. Dobbiamo altresì ridare ai lavoratori il gusto di guardare avanti […] con la volontà di realizzare almeno per i propri figli uno stato di vita che non solo sia più ‘giusto’ e più solidale, ma anche abbia più sapore e più senso”. Già nell’omelia del 1° maggio 1988 aveva affermato: “Il Signore oggi ci invita tutti a ritrovare la gioia di essere stati raggiunti e conquistati dal Vangelo e dal suo messaggio di salvezza per l’uomo”.
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