In principio fu il rosso: unitario, proletario ed inequivocabile. Da “Bandiera rossa la trionferà” allo sventolio di mille bandiere rosse nelle piazze soprattutto il primo maggio e poi magliette, gadget con le immancabili salamelle al Festival dell’Unità.

Un rosso identitario, scelta di campo per una classe operaia che prima nel socialismo e poi nel comunismo aveva trovato il fondamento delle proprie certezze.



Vennero poi i giorni del dubbio, prima quelli delle Brigate rosse con i “compagni che sbagliano” e poi i tempi delle querce e degli ulivi, delle margherite e degli arcobaleno con il rosso che “si vede e non si vede”, più che altro che si accenna.

Lo stesso primo maggio si trasformò progressivamente da appuntamento politico a “concertone” che – sotto l’ala protettrice dei sindacati – riempiva la piazza e vedeva salire sul palco il mondo della musica più che della politica, dove chi partecipava alla kermesse contava non tanto su un cachet sostanzioso per la manifestazione di Piazza San Giovanni, quanto per godere di visibilità e protezione, un lasciapassare per contratti generosi e tante presenze in tv.



Le bandiere rosse progressivamente sparirono, rivedendosi solo nelle manifestazioni sindacali, ma anche qui diventando progressivamente fuori moda a parte la declinazione Cgil.

Poi ecco il Pd con i suoi tormenti, le giravolte e le scissioni, fino all’ultima edizione Schlein, quella degli “armocromisti”.

Sarò terribilmente vecchio e fuori moda, lo so, ma a me il primo maggio colpiva proprio per quelle piazze piene di bandiere rosse al canto dell’“Internazionale”, che – peraltro – continua ad avere pur dopo tanti decenni una musica bellissima e trascinante.

Mi viene quasi nostalgia a pensare che la sinistra di oggi si affidi a una leader italo-american-svizzera che dedica la prima sua intervista a Vogue Italia, informandoci di avere perfino una propria “consulente d’immagine” (oltre che “personal shopper e armocromista”) che sceglie per lei il colore dei vestiti. La ricerca del “colore adatto” diventa quasi la metafora di chi non si ritrova più neanche sulla linea politica, ben più importante della scelta sul vestito da indossare.



Gli interventi della segretaria sono infatti ancora piuttosto fumosi, e a parte l’anti-melonismo non si capisce bene quale sarà il “suo” Pd, decisamente ambiguo su molti temi d’attualità. Circola impietoso sui social un suo recente intervento in cui la Schlein si lancia “Verso un futuro che anche grazie alle nuove norme europee sempre di più investa e costruisca dei cicli positivi della circolarità, uscendo dal modello lineare”. Frase che non solo non significa niente, ma che sottolinea un ragionamento – se c’è – piuttosto contorto.

Intanto tutto oggi finisce sui media e l’inventiva non manca certo sul web immaginando il programma della nuova scuola di formazione politica Pd “Frattocchie 4.0” dove tra le lezioni siano previste anche “Il diritto all’eleganza per gli stagionali immigrati dell’Agro Romano” avente come relatrice Lady Soumahoro, passando poi all’ “Antifascismo ai Parioli. Analisi e prospettive suonando i campanelli” di Carlo Calenda e Concita de Gregorio. Infine, il tanto atteso intervento finale “Armocromia. Le sorti progressiste da Engels ai Ferragnez” tenuto della stessa Schlein.

Un po’ ci si scherza su, ma soprattutto ci si interroga su una sinistra per cui oggi vale contemporaneamente tutto e il suo esatto contrario. Per questo, alla fine, ho quasi nostalgia delle bandiere rosse.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI