Un ricordo personale a premessa di quanto seguirà. Nel 1974 avevo sedici anni e iniziavo ad impegnarmi politicamente, come tanti, a sinistra e vidi in televisione uno sceneggiato storicamente molto accurato: “Quaranta giorni di libertà” sulla repubblica dell’Ossola. Nel corso di un dialogo politico tra partigiani entra nella discussione un distinto signore che si presenta come Concetto Marchesi. Per chi non lo sapesse, il professor Marchesi, comunista, è stato uno dei più grandi latinisti della storia culturale italiana, resistente e capo di un’organizzazione che salvava ebrei e perseguitati.
Ebbene in questo dialogo, udii il personaggio di Marchesi dare un giudizio che mi sorprese: “Attenzione a quello che vi dico. Il fascismo resterà in Italia almeno altri cinquant’anni. Ci vorranno anni e anni per cacciarlo dall’animo degli italiani, di tutti gli italiani. Perché è radicato in tutti noi, anche in voi, anche in me. Non facciamoci illusioni: il fascismo non è una causa ma un effetto”. Ricordo anche che, in un’assemblea studentesca, provai (con una certa improntitudine) a ripetere lo stesso concetto, ma le reazioni furono, direi, poco entusiaste. “Il fascismo non è in noi. Loro sono fascisti, noi gli antifascisti”. Tutto chiaro no?
Se non che, poco tempo dopo, restai a guardare, impotente e attonito, una ragazzina simpatizzante di destra circondata, nel liceo, da non meno di una trentina di coetanei di sinistra che la buttarono fuori dall’istituto. Così come vidi gli studenti che andavano a votare le rappresentanze studentesche passare in mezzo a due file di militanti che li riempivano di sputi e di insulti. E fu da quel momento che iniziai a chiedermi cosa fosse il fascismo.
Venendo al nostro punto. Un anniversario così significativo doveva cadere proprio pochi giorni dopo l’insediamento di un governo presieduto, per la prima volta nella storia repubblicana, da un presidente del Consiglio che ha iniziato la sua militanza politica nel Movimento sociale italiano. Più volte, sia durante che dopo la campagna elettorale è stato evocato lo spettro del ritorno del fascismo a ottant’anni dalla sua definitiva sconfitta. Ma per capire cosa c’è di vero in questi timori e in questa propaganda bisogna almeno accennare a cosa accadde negli anni dal 1919 al 1922, e cioè come Benito Mussolini, già esponente dell’ala rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano, riuscì a conseguire un potere assoluto partendo da zero.
Un breve riassunto dei fatti può tornare utile al lettore anche perché, come si sa, la Storia è materia complessa e, in apparenza, contraddittoria. Per cui è opportuno metterci al posto degli italiani degli anni Venti, per comprendere le loro scelte, per poi giudicare quegli anni alla luce dell’esperienza successiva.
Nel novembre del 1918 l’Italia, insieme a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, aveva vinto la guerra più colossale e micidiale della storia umana. Questa guerra che era costata all’Italia 650.000 morti, ai quali andavano aggiunte altre 500.000 vittime dell’influenza Spagnola. Queste perdite umane pesavano su un paese che, nel 1911, contava 37 milioni di abitanti. Per un confronto, si pensi ai 179.000 deceduti per Covid su una popolazione odierna di 59 milioni. Aggiungiamo i fortissimi disordini sociali dovuti alla disoccupazione, alla ristrutturazione delle industrie e l’influsso della Rivoluzione russa di appena un anno prima. Il successo di Lenin affascinò gran parte della sinistra socialista con diffusi scioperi e occupazioni di fabbriche in quello che verrà poi chiamato il biennio rosso (1919-1920).
In una società fortemente militarizzata, erano in molti ad aver preso gusto alla violenza e all’uccisione del nemico. La violenza politica, da sempre diffusa in Italia, eruppe con furia negli anni successivi alla guerra con un nuovo protagonista politico: Benito Mussolini, che, il 23 marzo 1919, fondò il movimento dei fasci italiani di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano. Gli obbiettivi del movimento erano affini a un nazionalismo estremo che contestava gli esiti di quella che fu chiamata “la vittoria mutilata” e di opposizione alla rivoluzione rossa. Ma non solo: come sempre accade in questi movimenti, la logica della violenza trovava sempre nuovi bersagli. Per cui non erano solo le sedi dell’“Avanti” socialista a essere devastate, non erano solo le cooperative rosse a esser distrutte. A essere aggrediti e picchiati erano anche i repubblicani e i cattolici.
Questi ultimi, poi erano oggetto di aggressioni da una parte e dall’altra e anch’essi avevano dovuto provvedere all’autodifesa, costituendo gruppi di avanguardisti cattolici. Erano scelti fra i migliori, più spiritualmente preparati e battaglieri e dotati di una certa prestanza fisica. Dovettero resistere anche a opposizioni interne alla Chiesa, che vedevano nella pura non violenza l’unica risposta, ma costituirono reparti con nomi che riecheggiavano la storia della Chiesa e dell’Italia come “Carroccio”, “Pontida”, “Alberto da Giussano”, “Lepanto” con il motto “Cristo o morte”. Grazie alla loro azione, e al sostegno delle animose ragazze della Gioventù Femminile Cattolica, le processioni religiose poterono tornare a essere svolte all’aperto, sfidando sia le aggressioni anche omicide dei socialisti, sia quelle dei fascisti. Le regole d’ingaggio dello scontro fisico furono enunciate nella seguente massima: “Non percuotere se basta trattenere la mano che vuol colpire; non ferire se è sufficiente percuotere; non uccidere se è sufficiente ferire”. Questi erano i tempi in cui ci si trovava a vivere.
Le prime elezioni a suffragio universale del 1919 vedono il successo di socialisti e popolari che, però non possono dar vita a un governo. Nelle elezioni del 1921 nuovo successo (anche questo inutile) di socialisti e popolari, mentre viene eletta una pattuglia di 35 deputati fascisti. I governi a guida liberale, con l’appoggio dei popolari, risultano deboli, mentre in novembre Mussolini fonda il Partito nazionale fascista e riesce a concludere coi socialisti un patto di pacificazione, che avrà poca durata, a causa dell’atteggiamento oltranzista dei fascisti legati alla borghesia agraria.
Sono anni di vera e propria guerra civile, tanto che oggi sono in molti a dimenticare che i fascisti uccisi in scontri armati furono circa 400, mentre le vittime della violenza fascista furono addirittura 3.000 e altre 3.000 persone vennero uccise dall’esercito e dalle forze dell’ordine. Ed è la considerazione di questa mattanza che ci porta a esaminare un processo storico che sfugge a molti, e cioè che tutta la storia dell’Ottocento, dalle guerre di unificazione in Italia e in Germania, allo sterminio degli indiani in Nord America, al comportamento delle potenze coloniali in Asia e Africa, ha il carattere di una giustificazione della violenza attraverso i risultati. Chi perde ha sempre torto, con i se e con i ma la storia non si fa e i profeti disarmati possono essere ammazzati più facilmente. Il punto è che i genocidi perpetrati su africani o asiatici sono stati replicati in Europa durante le guerre mondiali e l’uso della forza militare contro i manifestanti non è un’invenzione di Mussolini, ma dei Savoia, dall’eccidio di Torino nel 1864, ai moti di Milano con Bava Beccaris nel 1898. E questa tradizione di violenza da parte delle forze dell’ordine è proseguita anche in età repubblicana.
Per cui, tornando al 1922, quando Mussolini si accorge che il governo è debole e che il paese ha bisogno di “ordine” (quell’ordine che i fascisti stessi distruggevano ogni giorno con omicidi e ferimenti) ordina una serie di adunate nelle principali città italiane. In marzo 20.000 camicie nere a Milano, 40.000 a Ferrara e a Rovigo in maggio e poi a Bologna, dove i fascisti riescono a ottenere la destituzione del prefetto che intendeva opporsi con la forza alle loro prepotenze. In luglio i fascisti attaccano Andria, Viterbo, Magenta, Ravenna, Genova. A Parma la popolazione si oppone e le camicie nere sono respinte, ma è un successo di breve durata.
A ottobre da tutta Italia, decine di migliaia di fascisti marciano su Roma per chiedere al re il governo. Il 27 ottobre il presidente del consiglio Facta si dimette, ma prepara il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio. In tutto 25.000, forse 30.000 fascisti, male armati e disorganizzati hanno la strada sbarrata da 28.000 tra carabinieri e soldati. L’Italia è sull’orlo della guerra civile e se i carabinieri sono sicuramente disposti a battersi, non altrettanto può dirsi dell’esercito, dove vi sono già stati casi di ammutinamento.
Il re non è più sicuro di conservare il trono e sceglie la soluzione più semplice: cedere alla violenza, sacrificando l’onore dei propri collaboratori e il prestigio della legge. Non solo non firma lo stato d’assedio, ma sconfessa Facta e il giorno dopo invita Mussolini (che si trova a Milano, pronto a scappare in Svizzera in caso di mala parata) a costituire il nuovo governo.
Il 30 ottobre Mussolini giunge a Roma e riceve l’incarico. Inizia una nuova epoca per l’Italia dove lo statuto albertino, modificabile con legge ordinaria, sarà letteralmente fatto a pezzi, ma in modo formalmente legittimo. L’Italia aveva l’uomo forte così spesso invocato e le selvagge aggressioni fasciste sarebbero continuate facendo vittime illustri, da Piero Gobetti a Giovanni Amendola (ucciso a sacchettate) e a Giacomo Matteotti. La forza aveva avuto la meglio sulla ragione, sul diritto, sul rispetto della vita, sull’onore proprio e altrui.
E’ tuttavia sbagliato far coincidere il 1922 con i prodromi delle leggi razziali antisemite, dato che erano e saranno numerosi gli ebrei aderenti al fascismo, come testimoniato, peraltro, nel capolavoro di Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi Contini”. No, c’è molto di più in quel 30 ottobre 1922 (è quella la vera data della vittoria fascista) perché, riprendendo le parole di Concetto Marchesi citate all’inizio, il fascismo non se n’è andato dopo cinquant’anni e nemmeno dopo cento. Perché fino a quando la violenza sarà adoperata per far tacere qualcuno, come è il caso delle università occupate in questi giorni, il fascismo sarà ancora presente nei nostri cuori. “Non è morto il male nel mondo e noi tutti lo possiamo fare”.
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