La Germania ha deciso di investire 100 miliardi di euro per “la protezione del clima e la transizione energetica”. La cifra colossale diventa immediatamente meno “impressionante” se si aggiunge il dettaglio temporale “entro il 2030”. La divisione per dieci e l’orizzonte temporale indefinito ci obbliga ad aspettare qualche mese per capire la distanza tra l’annuncio e la realtà.
L’investimento in “economia verde” sarebbe ovviamente la scusa per obbligare la Germania a investire il suo surplus commerciale e fiscale. Un problema che affligge l’eurozona da molti anni e che, ci pare, non venga più ritenuto difendibile da una buona parte del resto mondo. Sono in molti a chiedere che la Germania cambi un modello economico che genera squilibri indifendibili. Dopotutto quel covo di pericolosi sovranisti del Fondo monetario internazionale ci avvisava a luglio che la Germania è il maggior contributore degli squilibri commerciali globali.
L’economia tedesca è in recessione e questa è una pessima notizia per tutta l’Europa. Le pressioni perché la Germania stimoli la sua economia in un contesto globale in cui si cerca disperatamente di evitare una recessione si stanno moltiplicando. La Germania è uno dei Paesi che dovrebbe e potrebbe fare di più in questo senso. I problemi europei non sono più confinati a qualche Paese mediterraneo, Grecia, Italia o Spagna, ma sono continentali. È il modello economico mercantilista a essere entrato in crisi profonda. Un modello che da un lato è stato imposto al resto d’Europa e dall’altro è stato venduto come l’unico orizzonte possibile ai Paesi membri dell’euro con il mantra di “fare come la Germania”. Si salva, incredibilmente, la Francia che ha avuto la forza di rifiutarlo.
Infatti, oggi l’unica speranza è che l’euro basso salvi ancora la baracca come nel 2009, come nel 2011 e come nel 2014. È una beffa. Il modello economico dell’euro si salva con la svalutazione della sua moneta. Come una lira qualsiasi. L’euro basso è la condizione necessaria perché il modello economico continui a stare in piedi. Nel contesto attuale all’Europa tedesca serve un euro più basso del cambio attuale che pure viaggia non distante dai minimi degli ultimi 15 anni. Tutto ciò è grottesco. Se la Germania non stimola la sua economia investendo e tagliando le tasse serve “una svalutazione competitiva”. Come a un’Italia pre-euro qualsiasi.
Solo che gli spazi di manovra per difendere il modello dell’euro e soprattutto il ruolo della Germania al suo interno si sono esauriti, a meno di ipotizzare esiti politici traumatici. La periferia è in stato comatoso da dieci anni e anche la Francia non si sente benissimo. Scaricare il conto degli squilibri sulla periferia è sempre più difficile e i partner commerciali si sono stufati di spendere i propri soldi per comprare macchine tedesche regalando soldi a uno Stato che si finanzia con tassi negativi.
Questa è la questione. Come da copione è la Germania che deciderà se scommettere sull’euro spendendo e quindi aiutando l’eurozona, ma in questo modo legandosi ai “mediterranei”, oppure deciderà per l’inevitabile soluzione, più spesa, solo quando si potrà segregare in qualche modo la periferia portandosi a casa il bottino astronomico di due decenni di euro.
Un conto è stare nell’euro potendo portare a casa surplus commerciali e fiscali a vagonate, viaggiando gratis su una moneta debole e facendo man bassa delle economie meno produttive senza più la protezione del cambio o delle regole, un conto è stare nell’euro pagando per i lazzaroni mediterranei; uno scotto che in qualsiasi altra unione monetaria di qualsiasi altra area del globo si deve pagare in un modo o nell’altro.
La questione oggi si riduce a un’alternativa. Se l’opposizione tedesca, rappresentata plasticamente da partiti come l’Afd, a una maggiore integrazione, via spesa dentro l’euro, vince, allora le contraddizioni dell’euro esploderanno e saranno i tedeschi a uscire in un modo o nell’altro. Altrimenti bisogna sperare che l’investimento “green” sia vero e sia per moltissimi miliardi di euro tendenzialmente entro il 2020. Diciamo subito che l’orizzonte “al 2030” promette malissimo perché gli stimoli servono domani.