“La ragione principale è che i nostri centri storici sono stati ingessati dalle amministrazioni comunali. Sono state messe molte barriere all’ingresso. Con l’avvento della grande distribuzione e degli outlet e soprattutto dell’online il negozio di vicinato non è più così competitivo”. Augusto Patrignani, presidente della Confcommercio della provincia di Forlì-Cesena, commenta così il risultato della ricerca realizzata proprio da Confcommercio, secondo la quale negli ultimi dieci anni sono sparite 100mila attività di commercio al dettaglio.
I numeri, per la precisione, parlano di 99mila attività più altre 16mila che riguardano gli ambulanti. Ma poco cambia, il significato è quello di un costante declino del settore che dura da due lustri e che proprio per questo preoccupa di più, non essendo legato a situazioni contingenti. La prima ragione di questa situazione, secondo Patrignani, sarebbe la poca attrattività dei centri storici dal punto di vista commerciale, chiusi come sono ormai nelle loro zone a traffico limitato, penalizzanti per i negozianti. Ma le ragioni non sono solo queste.
Presidente, quali sono i motivi per cui i negozi di vicinato chiudono?
L’online, comportando meno tasse, riesce ad avere una competitività superiore rispetto a un negozio di vicinato, anche perché nei nostri centri storici si continuano a pagare affitti molto alti per gli immobili, la tassazione è sempre elevatissima e il flusso di persone è sempre più complicato, perché non ci si può arrivare, i parcheggi ci sono e non ci sono.
Le zone a traffico limitato hanno pesato così tanto?
Sì, hanno influito tantissimo: c’è una barriera all’ingresso che non aiuta certo i negozi di vicinato. Basterebbe che gli amministratori pubblici cominciassero a riqualificare le aree urbane dando la possibilità di arrivarci in comodità, magari con le macchine attorno al centro storico, se non si vogliono far entrare. Bisogna far sì che si possa parcheggiare la macchina attorno alla città senza dovere fare un mutuo per recarsi nei centri storici e quindi nei negozi di vicinato. Occorre dare una mano a chi svolge questo mestiere senza tassarlo all’inverosimile, come invece si sta facendo in questo momento.
Negli ultimi tempi oltre agli affitti ha influito anche l’aumento dei costi dell’energia?
I negozi di vicinato non sono energivori. L’energia ha sempre influito perché raddoppiare le bollette significa dover sborsare soldi in più. Ma la bolletta non rappresenta un costo elevato, escluso i pubblici esercizi e tutti quelli che hanno a che fare con celle frigorifere. Il non food non ha questi costi elevati delle bollette.
Ci sono categorie come quelle dei panificatori per cui questi costi e quelli delle materie prime sono cresciuti molto, giusto?
Hanno i forni da riscaldare e quindi consumano energia, per loro le bollette sono andate alle stelle diventando insostenibili, così come i ristoranti, che hanno molte attrezzature che vanno elettricamente, forni, gas che va utilizzato. Insomma per il food, i prodotti alimentari, le bollette hanno inciso enormemente e questo è stato uno dei problemi per tante chiusure. Per il non food hanno inciso ma non in maniera così pesante. Quello che incide di più nei negozi di vicinato sono gli affitti, per i quali i proprietari di immobili continuano a chiedere cifre esagerate non capendo che il mondo è cambiato. Per questo succede che si trovano sempre più negozi sfitti. Dovrebbero adeguare gli affitti per far sì che un’attività che si insedia possa resistere.
Come si fa a invertire la rotta?
Le amministrazioni devono pensare alla rigenerazione urbana, come dice il nostro presidente Sangalli: con i soldi del Pnrr bisogna mettere mano alla riqualificazione dei nostri centri storici e dare la possibilità che ci sia più voglia di ritornarvi, perché magari riesci a parcheggiare bene, senza pagare cifre esorbitanti. La gente, con l’inflazione, con tutti questi aumenti, non ha più la capacità di spesa che aveva prima. Bisogna fare in modo che ci sia un vantaggio per chi vuole mettere un’attività in centro. Se non sarà così andremo incontro a una desertificazione delle nostre città.
La ricerca parla degli ultimi dieci anni, quindi di una tendenza a chiudere che non può essere spiegata con pur importanti ragioni contingenti. In sintesi, cosa ha inciso di più sulle chiusure della attività, chiusure dei centri storici, affitti e tasse?
L’aumento degli affitti, la grande esplosione dell’online dovuta al fatto che in questo modo si pagano meno tasse, il fatto che si è pensato che i negozi del commercio tradizionale avessero la possibilità di resistere sul mercato indipendentemente da tutto. Invece oggi sono diventati una categoria da difendere a tutti i costi perché una città senza un’insegna diventa un dormitorio, non c’è più la socialità. Bisogna tornare a pensare a questo dando molti vantaggi a chi decide di aprire un’attività.
Dall’altra parte in controtendenza c’è la grande distribuzione, alla quale viene dato sempre più spazio, anche in territori dove è già molto presente.
Quello è stato uno dei problemi. Sono nati tutti questi grandi centri commerciali, spesso li hanno fatti a ridosso della città, per non dire in città. Tutto questo ha spostato i flussi. Hanno il parcheggio davanti, è gratuito, ci si arriva tranquillamente, c’è un’offerta commerciale molto ampia.
La priorità per i negozi di vicinato rimane la riqualificazione dei centri storici?
Sì, vanno riqualificati, vanno migliorati sotto l’aspetto dell’arredo urbano, facendo in modo che diventi accattivante fare un giro in città. Allo stesso tempo le imprese che si vogliono insediare abbiano una tassazione agevolata per fare in modo che riescano a far fronte alla concorrenza dell’online e dei centri commerciali.
Quali sono i settori che hanno sofferto di più della morìa delle attività?
I settori più colpiti sono quelli del non food, quindi l’abbigliamento, gli accessori. Adesso c’è una grande esplosione di pubblici esercizi. Sono attività che ancora riescono a tenere anche se con le bollette in rialzo sono in difficoltà pure loro. Parlo di bar e ristoranti, che nei centri storici stanno crescendo rispetto a un tempo, quando c’era una programmazione e non si potevano aprire come si voleva. Adesso, dopo le lenzuolate di Bersani, questo contingentamento dei pubblici esercizi non c’è più, ognuno può aprire il locale che vuole. Loro sono ancora quelli che riescono ad avere un flusso di persone e un futuro. Se non ci sono anche gli altri negozi di vicinato, comunque, un po’ alla volta faranno più fatica anche loro.
(Paolo Rossetti)
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