L’orologio della storia non è tornato indietro. Anche se i segnali che ci arrivano dall’Afghanistan sembrano volerci riportare ai momenti di odio e di paura legati all’attacco kamikaze dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle.
Kabul di nuovo in mano ai talebani, gli attentatori suicidi che hanno seminato morte nelle ultime settimane, le parole di dolore, orgoglio, vendetta che arrivano dalla Casa Bianca potrebbero indurci a pensare che siamo di nuovo al punto di partenza. In ginocchio e in cerca di rivincita. Con in più la delusione per i 2.313 miliardi di dollari spesi nella campagna civile e militare afghana; il dolore per i 172mila morti fra esercito afghano, talebani, civili, soldati occidentali, operatori umanitari e giornalisti (fra cui la nostra Maria Grazia Cutuli); e la delusione per non essere riusciti ad “esportare” la democrazia in quella regione. Tutti questi dati ci dicono certamente che la missione Usa e occidentale in Afghanistan (precipitosamente conclusa) non è stata certo un successo. Ma non è vero che si riparte da zero.
L’11 settembre 2001 una gravissima ferita squarciò il cuore di un Occidente convinto di essere arrivato al punto più alto della sua storia e che, invece, si ritrovò sprofondato nella paura e nella precarietà.
La pandemia da Covid-19, negli ultimi due anni, ha riproposto e acuito quei sentimenti oscurando un po’ tutti gli altri problemi sul tappeto: dalla povertà alle guerre. Ma l’esplosione del nuovo caso Afghanistan ci costringe a paragonarci con alcune domande ineludibili.
La presenza di Dio nella storia è la fonte dell’intolleranza?
Anzitutto il problema del male, in noi e nel mondo. Possiamo ripetere oggi, dopo i fatti di Kabul, quello che scrisse Francesco Merlo in un editoriale del 15 settembre 2001 sul Corriere della Sera, cioè che “l’irruzione di Dio nella storia è sempre Apocalisse” e “la religione è sempre l’anfetamina dei popoli”?
Quel massacro perpetrato dai terroristi nel 2001 nel nome del Dio della loro ideologia, indusse alcuni intellettuali laici a tirare una conclusione maldestra: se vogliamo eliminare il terrore, eliminiamo Dio dalla storia umana. Eppure già a ridosso dell’11 settembre 2001, suor Anna Chiara, una siciliana superiora del monastero trappista di Kikivit nella Repubblica democratica del Congo, ci diceva: “La fede non c’entra. È la disperazione di fronte all’ingiustizia che porta al fanatismo”. E di fanatismo islamico suor Anna Chiara ne sapeva qualcosa, visto che pochi mesi prima proprio in Congo era stato sgozzato un missionario gesuita e che allora era ancora vivo il dolore per l’uccisione, nel 1996, dei monaci trappisti in Algeria.
Proprio nel 2001 Giovanni Paolo II, in vista della Giornata mondiale della Pace del primo gennaio dell’anno successivo, ricordò a tutti che “non si uccide in nome di Dio” e che non ci può essere pace senza giustizia, né giustizia senza perdono. E perché nessun responsabile delle religioni indulgesse verso il terrorismo, Papa Wojtyla convocò ad Assisi nel gennaio 2002 un momento di preghiera per la pace con la presenza dei maggiori leader spirituali del mondo.
Da allora il cammino del dialogo interreligioso a favore della pace è cresciuto moltissimo al punto che nel 2019, ad Abu Dhabi, Papa Francesco e il Grande Imam Ahmad Al-Tayyed hanno firmato un documento Sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. In questo testo si dichiara esecrabile il terrorismo, si afferma che esso “non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni” e si invitano i credenti ad adottare la cultura del dialogo, della collaborazione, della conoscenza reciproca. Il viaggio di Papa Francesco in Iraq, nel marzo di quest’anno, è stato un esempio lampante di come i fedeli di diverse religioni possano ritrovarsi a ricostruire insieme la pace partendo dal presupposto che siamo tutti fratelli, in quanto figli dello stesso Padre.
Come ricostruire il dialogo e la pace?
Il ventennio appena trascorso ci lascia altri importanti insegnamenti. Anzitutto che la democrazia non è un plico preconfezionato da esportare come i mobili Ikea. È, piuttosto, un processo lungo che presuppone – come ha scritto Fernando de Haro – un soggetto e una storia. In Afghanistan, così come nei Paesi che nel 2010-2011 vissero le Primavere arabe (Tunisia ed Egitto in particolare) il processo che porta a dare risposta al desiderio di libertà e dignità (parole d’ordine delle rivoluzioni sia a Tunisi sia al Cairo) è lungo. Ma chi, anche per poco tempo, ha sperimentato la bellezza della libertà e il rispetto della propria dignità (pensiamo alle donne afghane, o a chi in quel Paese, in cui l’indice di alfabetizzazione in 20 anni è passato dall’8 al 43%, ha avuto la possibilità di fare un percorso completo di studi), o chi ha visto coi propri occhi che musulmani e cristiani possono convivere pacificamente e aiutarsi (vedi il caso di alcune zone martoriate dell’Iraq) non può accontentarsi più di un ritorno alla logica del Califfato. È quel desiderio di libertà e dignità che va anzitutto tutelato, coltivato, aiutato con tutti i mezzi di cui la diplomazia internazionale dispone.
Ma anche noi occidentali abbiamo molto da imparare dalla lezione di questi venti anni. In un mondo che procede a più velocità, fatto di tante isole apparentemente felici e di tante situazioni infernali, la pandemia ci ha costretti a pensare che nessuno si può salvare da solo. E questo non vale appena per il percorso di uscita dal Covid. Vale per tutto, vale per affrontare le grandi questioni dell’ambiente, delle migrazioni, della povertà, dei diritti umani e del terrorismo. I fatti di Kabul costringono, per esempio, l’Europa a ripensare le politiche di accoglienza dei migranti dall’Afghanistan (e non solo).
E questo legame fra i popoli, quelli ricchi e quelli poveri – come ci ricorda Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti – non si può ricostruire “senza un’apertura al padre di tutti”. Senza questa consapevolezza, infatti, non possono esserci “ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità”. Piuttosto si ritornerebbe (il rischio è dietro l’angolo) alle politiche isolazioniste e alla legge del taglione.
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