MINNEAPOLIS – “We remember best what we love most”, si dice qua: ricordiamo di più quello che più amiamo. Vero, ma sarebbe più giusto dire che ricordiamo, che resta con noi, in noi tutto quello che ci prende al cuore, quei fatti, quelle persone, quelle circostanze che il cuore ce lo abbracciano o ce lo mordono. Poi sappiamo bene che quello che ci ferisce davvero faremmo carte false per dimenticarlo. Il resto, nel tempo, si appanna e se ne va, scivola via, il ricordo impallidisce fino a non lasciare più traccia. Resta il guscio vuoto di qualche forma e lo scialbore dell’indifferenza. È il destino di tutti gli anniversari.



Anche quello di oggi è un anniversario. Proprio l’altra sera guardavo il cielo di Brooklyn. Guardavo quelle due colonne di luce che ogni anno, da tanti anni, di questi tempi, si innalzano da Downtown Manhattan per perdersi nel cielo senza stelle di New York. Due colonne di luce scagliate da Ground Zero verso l’infinito. Due riflessi spettrali di quelle che erano le Twin Towers fino a quella mattina dell’11 settembre di vent’anni fa.



Vent’anni… Poca cosa nella storia del mondo, ma un’eternità nella vita di un essere umano. Ormai per tanti giovani l’appello di sempre, quel “Remember!” che continua ad accompagnare tutto quel che accade attorno ad ogni 11 settembre, non ha grande significato, per molti non ne ha alcuno. Loro non erano neppure arrivati in questo mondo quel lontano giorno. Cosa dovrebbero ricordare di quel che hanno sentito dire o di quello che magari qualcuno gli ha raccontato? E noi? È poi così diverso per noi che c’eravamo? “Remember” che cosa? Cosa dovremmo ricordare noi che abbiamo visto, udito, toccato con mano? Noi che quell’11 settembre saremmo potuti anche morire? Ricordare quel sinistro pennacchio che si alzava dalla punta sud di Manhattan? Quelle drammatiche immagini che la tv ci portava in casa? Quell’acre odore di un mondo che inopinatamente si disfaceva in polvere e fumo? L’ansia o addirittura l’angoscia nell’attesa di sapere dei propri cari a scuola o al lavoro in qualche angolo della City o su qualche aereo in giro per il paese? Ricordarsi che quel giorno è cambiato il nostro mondo? Ricordarsi che su quel giorno si è radicata una guerra terribile che ha portato solo frutti amari, girando per vent’anni su se stessa, a vuoto?



Sì, io c’ero. Per un po’ di anni, sapendomi da New York, con chiunque mi trovassi era la prima cosa che mi veniva chiesta: “Ma tu, c’eri?”.

Io c’ero. Ho visto, udito e toccato con mano. Ricordo il pennacchio scuro in quel cielo blu, ricordo l’acre odore di fumo che scorticava le narici, ricordo l’attesa di sentire che figli e amici erano in salvo, ricordo il tuffo al cuore e il respiro che si ferma al crollo della prima torre e lo strazio, le lacrime incredule al precipitare della seconda, ricordo il senso di smarrimento, di impotenza, il dolore fisico dell’essere sopraffatti da qualcosa di enorme come se in un romanzo di H.G. Wells degli alieni fossero venuti per distruggerci.

Tutto questo è rimasto dentro di me, ma non brucia più come vent’anni fa.

È inevitabile ed è giusto che sia così. Quello che spero di non dimenticare mai è quel desiderio, quella fame di vita che quel giorno ci assalì tutti, quella percezione netta di ciò che nella nostra esistenza conta e di quello che non conta, di quel che ha valore e quel che non ne ha, che siamo fatti per la vita e non per la morte, quel lampo di consapevolezza che ti fa vedere quanto siamo affamati di bene e capaci di male.

Sulla cicatrice di quella profonda ferita inferta vent’anni fa, New York City, rispondendo allo schiaffo ricevuto, ha eretto la “Freedom Tower”, la torre della libertà. Ma non basta. Anche la torre della libertà ha vacillato sotto il vento del Covid. Come tutto il mondo.

Verrebbe da cercare di dimenticare, per non avere paura: 11 settembre, Covid, Afghanistan… Come si fa a sperare?

“Dalla natura”, diceva San Tommaso, “il terrore della morte, dalla Grazia, l’audacia”. Chi questa Grazia l’ha ricevuta la porti agli altri.

God Bless America!

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