Ero presente quando in Italia si tenne il primo referendum abrogativo della nostra storia repubblicana: giusto 50 anni fa, il 12-13 maggio 1974. Furono giorni caldissimi, non solo sotto il profilo politico-sociale, ma anche, e forse soprattutto, sotto il profilo religioso-culturale. L’oggetto incandescente e onnipresente in tutti i dibattiti di allora era l’abrogazione della legge sul divorzio.
Si trattava del primo referendum abrogativo, nonostante fosse previsto dall’articolo 75 della nostra Carta costituzionale: nessuno fino ad allora aveva ritenuto necessario o per lo meno opportuno farvi ricorso. Anche l’approvazione della legge sul divorzio, il 1° dicembre 1970, la famosa legge Fortuna-Baslini, era stata preceduta ed accompagnata da una infinita serie di dibattiti pro e contro, con una amplissima maggioranza della Dc schierata contro, con l’appoggio del Msi, mentre la maggioranza degli altri partiti aveva votato a favore.
La legge 898/1970 che aveva introdotto in Italia il divorzio, aveva messo in evidenza divisioni e controversie che serpeggiavano tra i cattolici, soprattutto tra i più brillanti intellettuali. Per il popolo cattolico, allora assai più numeroso di quanto non lo sia oggi, la dottrina cattolica sancisce l’indissolubilità del sacramento in cui prende forma il vincolo matrimoniale. Ma gli antidivorzisti, presentando laicamente la loro posizione, facevano riferimento al matrimonio sottolineando il fatto che era prima di tutto un istituto di diritto naturale, e solo per i cattolici anche un sacramento.
Il dibattito quindi si concentrava allora – come ancora oggi – sul tema della libertà e sul significato da attribuire al vincolo matrimoniale, e al suo carattere religioso, che non poteva essere imposto a tutti. Il fronte divorzista intendeva la sua battaglia nel senso di un ampliamento delle libertà civili; oggi diremmo per un più esplicito riconoscimento dei diritti individuali. In questo senso poteva trovare un accordo anche nel mondo cattolico, in coloro che, pur riaffermando la propria fede nel sacramento del matrimonio e ribadendo il proprio proposito di non divorziare, riconoscevano agli altri il diritto di agire come meglio credevano. Nei dibattiti pubblici, ma anche negli incontri più informali, si intrecciavano due tipiche argomentazioni, coerenti con l’impianto socialista e liberale dei due relatori della legge. Da un lato il diritto alla libertà in sé stessa, il principio di autodeterminazione, che anche nella sua astrazione andava guadagnando consenso: liberi di decidere come meglio credo in ciò che mi riguarda. Dall’altro l’enfasi messa sui casi pietosi, ad alta densità emotiva. Chi poteva negare il divorzio ad una donna sposata con un uomo in carcere, brutale e violento, destinato a rimanere recluso per molti anni ancora? o chi poteva negare il diritto al divorzio ad una donna sposata con un uomo alcolizzato, violento, che le negava ogni forma di autonomia? Quasi sempre la vittima era la donna, che nel matrimonio, in quel matrimonio, vedeva soffocati i suoi diritti fondamentali ed era costretta ad una sorta di schiavitù, da cui non riusciva a liberarsi altrimenti. Ogni giorno venivano rilanciati dalla stampa e dalla Tv casi sempre più drammatici, a forte impatto emotivo, che cercavano la simpatia e la solidarietà del lettore per giustificare a pieno titolo il proprio voto negativo al referendum.
In tal modo una campagna elettorale giocata sul doppio registro del diritto alla libertà e del diritto della donna ad essere amata e rispettata, trasformò progressivamente anche la posizione di chi all’inizio era sostanzialmente contrario al divorzio.
Sul piano della comunicazione gli antidivorzisti, per lo più di area cattolica, presentarono una campagna più legata al senso del dovere, alla fedeltà al Magistero, e pur trattandosi di argomentazioni forti, non ebbero la stessa presa sull’opinione pubblica, neppure in quel popolo di cattolici che allora costituiva la maggioranza. Il senso della compassione per il caso disperato e la voglia di libertà sono ancora oggi le leve più efficaci per incidere sull’opinione pubblica. Ma non sempre rappresentano la risposta giusta per risolvere i problemi e venire incontro alle esigenze delle persone, tanto più quando si trovano in una condizione di estrema fragilità.
In questi anni abbiamo assistito ad un dilagare delle nuove solitudini, con la paura di stringere vincoli impegnativi, fino al punto che i matrimoni religiosi e civili sono davvero al loro minimo storico. Il diffondersi del divorzio, reso sempre più facile con il trascorrere degli anni fino all’attuale formula del divorzio-lampo, ha reso sempre meno significativi i legami che dovrebbe sciogliere: legami che attualmente sono sempre di meno e hanno come conseguenza il timore ad avere figli. Nel clima di grave precarietà in cui le giovani coppie vivono è difficile immaginare di potersi prendere cura insieme di un figlio, per cui sembra più facile rinunciare.
Dal clima acceso di 50 anni fa per contrastare o per difendere la legge sul divorzio, siamo giunti al limite che divorziare ormai non è più necessario, perché l’opzione si è spostata più avanti e si preferisce non sposarsi neppure. Ma anche questo è effetto di una norma che con il tempo ha cancellato sempre più il senso di una reciproca responsabilità, che vuol dire anche di reciproco amore. Oggi assistiamo ad una sorta di divorzio di massa, per cui viene meno anche la peculiarità di quei casi concreti in cui il divorzio può rappresentare una soluzione, sofferta ma necessaria. Oggi la crisi generale della famiglia, della coppia, tocca quel nucleo profondo per cui si ha persino paura di amare e di farsi amare e si finisce col sentirsi soli e smarriti, immersi in un malessere psicologico profondo, sempre più difficile da curare.
(1 – continua)
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