È il 13 giugno del 1984, 35 anni fa, quando don Luigi Melesi, ai tempi cappellano del carcere di San Vittore, insieme a un brigatista guidò una macchina con all’interno quattro borsoni pieni di Kalashnikov, bombe a mano, pistole e fucili, all’arcivescovado di Milano. Era l’arsenale militare dei Comitati Comunisti Rivoluzionari vicini alle Brigate Rosse. Quella consegna significava la resa, ma anche la richiesta dei terroristi per sollecitare una mediazione della Chiesa per una “riconciliazione umana, sociale politica”. Un gesto clamoroso che, ricostruendo il percorso storico dello scomparso arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, appare oggi come la conclusione di un percorso di avvicinamento umano cominciato da Martini già da tempo nei confronti dei terroristi che si trovavano in carcere. Nell’aprile di quell’anno, Martini aveva acconsentito a battezzare i due gemelli avuti da una coppia di irriducibili in carcere, su loro stessa richiesta, a patto che accettassero che i nonni li crescessero con una “educazione cristiana”. Ne abbiamo parlato con il professor Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è anche direttore del Dipartimento di scienze storiche.
Professore, quel gesto del 13 giugno di 35 anni fa nasceva per ragioni puramente politiche, o il fatto di essersi rivolti proprio a Carlo Maria Martini aveva un significato particolare?
Fu il punto più alto di un percorso che il cardinale cominciò subito, quando nel 1980 divenne arcivescovo di Milano. Si recò subito a San Vittore dove tornò molte volte per incontrare i carcerati normali ma soprattutto i terroristi, cosa che nessuno aveva mai fatto. Si mise sin da subito in ascolto, un atteggiamento di attenzione nei loro confronti che fu molto apprezzato perché il cardinal Martini non impose mai loro nulla né avanzò affermazioni che potessero urtare. Con la sua semplice presenza favorì un percorso di uscita dalla logica del terrorismo, in qualche caso anche di pentimento, ma soprattutto la ricomprensione dei valori umani che il terrorismo aveva calpestato.
Dunque mise in primo piano l’umano, non si mise a fare un discorso di tipo politico.
Sì, e con un sottofondo spirituale, anche se lui non lo impose mai, ma era chiaro che il suo atteggiamento in qualche modo anche di condivisione delle riflessioni che stavano maturando nei terroristi in quel periodo aveva una radice spirituale e religiosa.
Come recepì quell’episodio del 13 giugno lo Stato? Si vide scavalcato in qualche modo dalla Chiesa?
Credo che il ruolo che hanno avuto la Chiesa e il cardinale sia stato molto positivo per quella che è stata chiamata la fine della guerra e che in Italia ha avuto un percorso diverso.
Che tipo di percorso?
In Italia si è favorita la fuoriuscita non solo con la repressione ma anche favorendo le forme di pentitismo e dissociazione. Lo Stato ha promosso una legislazione unica al mondo che si può definire “premiale”. In questo senso la Chiesa ha fatto quello che lo Stato non poteva fare, avvicinare e dialogare con questi uomini e queste donne.
Nel 1978, al tempo del rapimento Moro, Paolo VI chiese “in ginocchio” la liberazione del presidente della Dc, ma non venne ascoltato. Forse perché allora i terroristi si sentivano forti, mentre nel 1984 avevano capito di essere stati militarmente sconfitti?
Certamente c’è un filo conduttore tra i due episodi, perché quando il papa li chiamò “uomini delle Brigate Rosse” era qualcosa che metteva l’umanità davanti a tutto. La differenza è che i brigatisti durante il rapimento Moro ebbero un atteggiamento molto sprezzante, non compresero quel gesto. Non c’è solo la sconfitta militare dietro l’episodio del 1984, ma anche una maturazione umana di queste persone che si rendevano conto delle conseguenze su di loro sia come carcerati ma soprattutto la presa di coscienza di un male inutile fatte al prossimo che nei brigatisti del 1978 non c’era.
Quella riconciliazione richiesta nel 1984 c’è poi stata? Ci sono ancora vittime del terrorismo che non perdonano ed ex terroristi che mantengono ancora oggi posizioni ambigue.
Non del tutto, bisogna ancora lavorarci. Una riconciliazione c’è stata in casi importanti come il ruolo avuto da Agnese Moro o dai fratelli Bachelet. La riconciliazione è importante perché aiuta a chiudere una stagione storica, soprattutto quando c’è il perdono da parte delle vittime si fa un grossissimo passo avanti per estinguere la radice della violenza, e questo lavoro è stato fatto in grandissima parte dalla Chiesa.
(Paolo Vites)