Accantonata l’ipotesi di un ritorno al partito unico dei cattolici, che si chiami o meno Democrazia cristiana è pressoché irrilevante, resta legittima la posizione di quanti auspicano una ritrovata unità dei cattolici in politica, almeno su alcuni temi essenziali. Per esempio, la tutela della vita e della famiglia, la libertà di educazione e di istruzione, la giustizia sociale e il contrasto alla povertà, l’inclusione e il rifiuto delle discriminazioni, ecc. Ma per capire quanto sia difficile questo obiettivo, occorre ripartire dalla approvazione della legge sul divorzio, il 1° dicembre 1970 e dalla vittoria dei No al referendum abrogativo del 12 maggio 1974, cinquant’anni fa. Per molti studiosi queste due date definiscono l’inizio della secolarizzazione in Italia.



Lo spartiacque tra un prima e un dopo, percepito già allora e sintetizzato con le parole di Vittorio Bachelet, docente universitario e presidente di Azione Cattolica: “La scelta dell’indissolubilità o del divorzio è una scelta che inciderà largamente sulla nuova società che nasce, non solo perché condizionerà positivamente o negativamente l’esistenza di famiglie stabili e perciò stesso la solidità della compagine sociale, ma perché contribuirà a diffondere o a cancellare una concezione della vita che per fondare la comunità considera indispensabile una dedizione capace anche di sacrificio”.



Paolo VI espresse “profondo dolore per un duplice motivo: per il danno gravissimo che il divorzio reca alla famiglia italiana e specialmente ai figli; e poi perché la Santa Sede stima la presente legge lesiva del Concordato”. La legge sul divorzio si intrecciava infatti con la revisione del Concordato che, in virtù dei Patti Lateranensi, regola i rapporti tra Stato italiano e Santa Sede. Ma fu proprio questo collegamento tra Stato e Chiesa a scatenare una sorta di laicismo in azione, che raggiunse effetti paradossali. Furono 336 i vescovi denunciati per “infedeltà alle istituzioni dello Stato e per aver svolto attività politica istigando i cittadini al disprezzo delle istituzioni e delle leggi”.



La CEI, pur rispondendo con toni assai più miti e misurati, lontano da qualsiasi forma di guerra di religione, chiedeva invece un confronto democratico; pur rispettando la distinzione tra le due sfere di competenza, temporale e spirituale, sottolineò come fosse suo obbligo esprimere un giudizio su questioni che riguardano valori morali fondamentali. Nello stesso tempo avviava nelle parrocchie, e in ogni altro contesto possibile, una più intensa pastorale familiare.

Gli anni 70 sono anche gli anni in cui il difficile periodo del post-Concilio, con le tante critiche nei confronti dell’autorità ecclesiastica, si intreccia con i movimenti studenteschi insofferenti davanti a ogni forma di autorità, e con le rivendicazioni operaie che culminano nella cosiddetta “strategia della tensione”. Un periodo socialmente e culturalmente sempre più complesso il cui il tema predominante era l’affamata ricerca di libertà e la messa in discussione di ogni forma di verità. La stampa laica rifletteva e ampliava questo caos ideologico in cui l’individualismo lanciava le sue sfide nella ricerca di un’autonomia e di una determinazione senza confini. Paolo VI, consapevole di come la battaglia per il divorzio prima e per il referendum subito dopo non fossero altro che una parte della rivoluzione culturale che si intravvedeva, chiese alla CEI una più incisiva presa di posizione da parte della stampa cattolica.

Non a caso nasce in quegli anni il quotidiano cattolico nazionale Avvenire ed è dalle pagine di Avvenire che viene lanciato il referendum abrogativo della legge sul divorzio, coinvolgendo intellettuali cattolici e non cattolici, ispirati da una stessa passione per la libertà declinata nella prospettiva della verità. Non qualunque libertà rende liberi, ma solo quella libertà che risponde a criteri di verità nella lettura e nell’interpretazione dei fatti, in questo caso consapevole del valore della famiglia e del suo ruolo fondamentale per dare coesione alla nostra società. Nella famiglia non è in gioco solo il ruolo della coppia e la sua libertà generativa basata sull’amore, ma anche quel patto intergenerazionale che include giovani ed anziani in una stessa comunità familiare fatta di spirito di servizio. E oggi vediamo il riflesso di una crisi in cui le coppie preferiscono convivere senza sposarsi, non nascono figli e gli anziani sono in gran parte marginalizzati.

Anche la Democrazia cristiana fu scossa dalla prova del referendum sul divorzio: entrava in crisi l’identità cattolica del Paese e l’essenza stessa del partito cattolico, il suo bacino elettorale per eccellenza. La sua stessa identità politica andava ripensata, perché con tutta evidenza era venuta meno l’unità politica dei cattolici. Una domanda importante, sorta allora, ma che da allora ci si continua a porre con frequenza, può essere: “In che modo il cattolico simpliciter testimonia la sua identità quando vota e delega ad un partito, ad una classe dirigente, il potere previsto da ogni ordinamento democratico? Quali sono o quali dovrebbero essere i suoi parametri di riferimento”? Non c’è dubbio che è alla responsabilità del cittadino che va restituito il diritto-dovere di decidere da chi vuole essere governato, sulla base di quali obiettivi e di quali valori. Quel primo referendum abrogativo continua ancora oggi ad interpellare le nostre coscienze di cittadini chiamati a votare e a prendere coscienza del valore del voto, di ogni voto, sottraendosi alla tentazione dell’astensionismo: è così che si comincia a fare davvero politica.

(2 – fine)

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