Netflix, così come lo conosciamo oggi, è venuto alla luce esattamente 15 anni fa, ovvero il 16 gennaio 2007. Lo racconta Will Media in un post di ieri. Nato nel 1997, fino ad allora era semplicemente un servizio per il noleggio tramite posta di Dvd, Vhs e videogiochi. Quel cambiamento strategico comportò una crescita mostruosa: in pratica la creazione di un nuovo mercato. Solo da qualche anno infatti piattaforme come Dinsey Plus, Sky Go, Amazon Prime, Dazn, Timvision e così via riescono ad erodere qualche punto percentuale al colosso che ha in Reed Hastings il suo Ceo, cofondatore e presidente. Era quest’ultimo infatti a dire, ancora nel 2017, che “in questo momento il nostro maggior competitor è il sonno”.
La decisione di Hastings comportò una crescita devastante anche perché una settimana prima, il 9 gennaio, Steve Jobs aveva presentato l’iPhone, un dispositivo che combinava un telefono a un iPod e ad essi la possibilità di collegarsi a internet: non è un segreto che moltissimi servizi Netflix vengano usufruiti direttamente dallo smartphone. Quindici anni fa la società fondata a Scotts Valley, in California, esordì offrendo agli utenti la possibilità di guardare un catalogo di mille film attraverso il web. Adesso 213 milioni di abbonati di 191 Paesi possono scegliere tra 5.500 titoli di film o serie tv supportati in 37 lingue.
Immersi come siamo in questo cambiamento radicale, non riusciamo ancora a misurarne appieno la portata. Eppure non dovrebbe essere così difficile se pensiamo all’epoca della Rai di Bernabei, quando la famiglia italiana si trovava la sera davanti ad una televisione che solo poco prima aveva mandato in onda qualche programma adatto ai ragazzi, mentre adesso, a qualsiasi ora e ovunque, ciascuno di noi può accedere ad una quantità praticamente infinita di immagini che scorrono ormai quasi senza nessun ostacolo, siano esse film, fiction o post di social network. Se fosse poco, poi, la pandemia ha fortemente accentuato la nostra dipendenza dalla tecnologia digitale così da renderci perfino impossibile in questo momento immaginare di poterne fare a meno.
La prima considerazione che ci viene da fare è che davanti a Netflix e agli smartphone perdiamo tantissimo tempo, ma il problema non è solo quello. A causa dell’algoritmo che ci offre programmi empatici al nostro orizzonte esistenziale, siamo infatti sempre più abituati a stare all’interno di bolle elettroniche totalmente autoreferenziali: con l’evidentissima difficoltà di renderci sempre meno adatti a relazionarci con chi la pensa in maniera diversa da noi.
In secondo luogo poi c’è la costante erosione della capacità di stare sul nostro focus esistenziale. Ormai ci sono adolescenti che, invece di stare con se stessi a porsi le grandi domande della vita, sono in grado di seguire una serie su Netflix non solo quando sono in metro ma anche mentre camminano per strada, attendono l’ascensore, fanno la fila al supermercato o aspettano che il semaforo divenga verde (coltiviamo la speranza che almeno in quel momento interrompano).
Il “focus esistenziale”, non inganniamoci, è solo un modo moderno di indicare quella che un tempo si chiamava “vocazione”, non solo intesa in senso schiettamente religioso ma proprio in quello umano di sapere “chi si è” e determinarsi ad essere “chi e cosa” si vuole diventare. Perché, distratti come siamo, con una capacità di attenzione più fragile di quella delle ali di una farfalla, rischiamo di essere solo capaci di scegliere la prossima serie da guardare su Netflix.
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