Si dissolsero, pian piano, i miasmi pestilenziali dell’aria corrotta. Secondo la povera scienza medica di allora, era quello il veicolo principale che diffondeva i contagi. I mesti cortei dei monatti che portavano i cadaveri infetti al luogo di frettolose sepolture anonime cominciarono a diradarsi. Sempre meno persone venivano rinchiuse nel lazzaretto fuori città. E tra le vie dei quartieri la quarantena poteva essere allentata: si tornava a uscire dalle case, riprendevano i traffici e le fatiche di ogni giorno. Lasciato alle spalle il picco dei decessi, nel corso del 1577 si cominciò a pensare che la violenta epidemia iniziata l’anno prima potesse ormai essere considerata chiusa.
I solenni ringraziamenti per lo scampato pericolo furono organizzati nel gennaio del 1578, quando il ripristino della sanità pubblica apparve garantito fuori da ogni ragionevole dubbio. Il popolo dei milanesi tornò a essere convocato per dare vita a interminabili processioni che surclassarono quelle penitenziali, dietro la croce portata da san Carlo con la reliquia del Santo Chiodo, a cui si era affidato il compito di sollecitare la più intensa preghiera collettiva nei mesi in cui la peste aveva aggredito le terre lombarde.
Se il registro doloroso dell’autoabbassamento, dell’umiltà ostentata e della compassione sulle orme della Passione del Redentore aveva dominato quando l’esigenza primaria era stata quella di implorare la guarigione dal male, ora, a liberazione avvenuta, l’accento si spostava sull’esaltazione della riconoscenza. Si era stati messi di fronte a un grandioso, immeritato “beneficio”, dietro il quale non si faticava a scorgere la mossa di una speciale misericordia divina.
E tutta la città, dai suoi poteri più alti alla massa della gente ordinaria, doveva essere richiamata con forza a fare propria la severa lezione dell’esodo provvidenzialmente rivissuto: dalla dolorosa attraversata del deserto inospitale della lunga malattia velenosa allo sbocco, pur decimati da tanti lutti strazianti, in una nuova fase di ripresa, aperta a un futuro che bisognava edificare insieme, un futuro che fosse diverso, il più possibile libero da errori e contraddizioni, segnato dalla riscoperta dei valori essenziali a cui ancorare l’esistenza nel mondo.
Era necessario, prima di ogni altra cosa, addestrarsi a un grande atto di “memoria”, senza sconti, sull’esempio della storia della salvezza impersonata dal popolo eletto dell’Antico Testamento, come ugualmente ammoniva il ciclo annuale della Pasqua celebrata dalla liturgia cristiana. Dalla morte di una schiavitù opprimente, al timido albore che preannunciava il germoglio di una amicizia rinsaldata con Dio: scudo di protezione dietro il quale raccogliersi, perno di una più sana convivenza tesa a inseguire l’ideale della concordia e della prosperità operosa.
Per questo le vibranti predicazioni che accompagnarono le cerimonie delle prime settimane del 1578, unite agli altri insegnamenti lanciati durante l’imperversare del contagio, confluirono nelle pagine di un libretto che san Carlo fece stampare e diffuse su vasta scala con il titolo quanto mai eloquente di Memoriale al suo diletto popolo della città e diocese: un testo suggestivo e commovente, carico di un pathos modellato sulle piaghe di una storia in cui si era stati immersi fino al collo, drammaticamente finalizzato a ricavare un monito indelebile, scolpito nel cuore di ogni fedele, dall’esperienza di cui si era appena stati attori in prima persona, più che solo testimoni atterriti.
Il Memoriale colpì profondamente, in anni a noi vicini, la sensibilità del primo Giovanni Testori, che lo trovava del tutto congeniale alla sua visione esasperata dell’eterno duello tra la vita e la morte, la carne e lo spirito. Proprio per questo lo volle riproporre, corredato da una toccante prefazione, nel 1965 e poi di nuovo nel 1983 (la seconda volta a cura dell’allora Centro Culturale S. Carlo di Milano):
“Benedictus Deus, et Pater Domini Nostri Iesu Christi, pater misericordiarum, et Deus totius consolationis, qui consolatur nos in omni tribulatione nostra. La peste è estinta, sia Benedetto Dio, e padre delle misericordie, e Dio d’ogni consolazione, che ci ha consolato, e fattoci questa nuova misericordia.
Conosci, o Milano, e riconosci la grazia che da sua divina Maestà è stata ora concessa a te e alla tua diocese.
Conosci: questa è la parola, o per dir meglio il punto principale a che mirano tutti i capi della prima parte di questo libro, che ora trattaremo.
Conosci dunque, o Milano, il beneficio che hai ricevuto.
Conosci da chi l’hai ricevuto.
Conosci te stesso, a chi è fatto.
Conosci finalmente le cause, per le quali ti è fatto. Non con spirito di mondo, ma con spirito che sia da Dio.
Conosci, Milano, quello che Dio ti ha ora donato”.
Ma per essere concreto fino in fondo, da vero pastore interessato a comunicare il messaggio che più gli stava a cuore, Carlo Borromeo non si accontentò della sapiente oratoria dispiegata nei “ragionamenti” del Memoriale. Muovendosi sulle medesime linee di fondo – lasciarsi educare dall’esperienza vissuta, farne tesoro per ricavare un vero frutto dall’immenso “beneficio” del dono ricevuto – già prima aveva patrocinato l’invenzione di una regola di vita per l’intera comunità dei battezzati, messa a punto nel febbrile “laboratorio” della Milano avviata alla ricostruzione del dopo peste.
Lo scopo era indicare a tutti il modo secondo cui incarnare lo spirito di una fede rinnovata, dentro la cornice della vita più semplice e quotidiana, nella corposa oggettività delle circostanze, degli atti e delle responsabilità di ogni giorno. Ne venne fuori il Libretto de i ricordi per il vivere cristiano, communemente ad ogni stato di persone, e particularmente a padri e madri di fameglia, mastri o capi di botteghe, e lavoranti, pronto per essere divulgato, prima sotto la forma di tavole da appendere ai muri come manifesti, poi anche come opuscolo tascabile per la lettura in comune, fin dagli ultimi giorni di dicembre del 1577.
Il vademecum dei “ricordi” per il laico cristiano, esattamente come il Memoriale che vi fece seguito, si incardinava sulla generosa disponibilità ad accogliere l’appello alla conversione che veniva da una grazia fisicamente sperimentata, in virtù della quale si era alla fine usciti dall’incendio divampato. Se voleva rimettersi in piedi, rendersi resistente a ogni futuro assalto di condizioni avverse, l’identità da riconfigurare non poteva che fondarsi sulla roccaforte di un io cambiato: cambiato perché colmo di gratitudine.
La “cognizione di sé stesso”, la capacità di “stare sopra di sé” nel modo di gestire la vita domestica, nello stare con i figli, nel mangiare e nel bere, nei doveri del lavoro, anche quello manuale più umile e pesante, dovevano nutrire il senso di una vera appartenenza: il legame con il mistero del divino reso vicino e presente doveva diventare il centro di tutto, impregnare e coincidere con la “memoria”. L’intera esistenza era da imbrigliare in un’ossatura di sapore quasi monastico: le preghiere da ripetere nello scorrere delle giornate, al ritmo del suono delle campane; avere “sempre Iddio davanti a gl’occhi”; il segno della croce, una invocazione anche solo di poche parole, un pensiero, magari un canto “spirituale” accennati prima di compiere qualunque gesto, persino “negoziando o lavorando”…
Ma fare leva su una fede che invadeva lo spazio dell’esperienza umana non voleva dire schiavizzare l’individuo, costringerlo sotto la cappa di un controllo clericale autoritario e soffocante. Era, piuttosto, lo spiraglio tenuto ostinatamente aperto per introdurre nella vita reale una luce, l’energia di un respiro diverso, che faceva spalancare l’orizzonte. Con mezzi elementari, messi alla portata di tutti, ci si riconduceva al senso di una signoria di Dio che non stava relegata nell’aldilà di un sacro avido di dure pretese, ma che si era invece piegata umilmente, con uno sguardo amorevole, sulla fragile precarietà della vita degli uomini. Fattosi agnello condotto fino alla morte di croce, Dio-Salvatore continuava ad attirarli nell’abbraccio di una compagnia ospitale e, allo stesso tempo, risolutamente esigente.
Proprio la tragedia da cui si era usciti mostrava che era ragionevole cedere all’urto di una così ruvida insistenza: molto più che contrapporvi la temeraria presunzione di poter fare da sé.