Che cosa sia la vita uno lo impara da quello che guarda. I più grandi insegnamenti sull’esistenza noi non li riceviamo dall’udito, dalle cose che ascoltiamo, ma dall’associazione che si crea in noi tra le emozioni che proviamo e le cose che vediamo, gli odori che sentiamo, la realtà che tocchiamo. Così si può dire che ad educare i nostri figli abbiamo lasciato la televisione, i videogiochi, gli smartphone, al punto tale che le loro reazioni non sono più comprensibili alla luce di dinamiche reali, bensì di modelli virtuali tutti da comprendere e studiare.
La premessa, per quanto possa apparire lontana, è fondamentale per entrare dentro l’ennesimo dramma che si consuma sotto il cielo dell’adolescenza del nostro paese. Ancora una volta è l’Emilia ad essere protagonista di un copione che lascia interdetti: profittando di uno dei tanti scioperi che gli studenti organizzano con molto entusiasmo e poca convinzione, cinque quindicenni – tre maschi e due femmine – decidono di comprare degli alcolici (vino e vodka alla pesca) per consumarli nella casa sicura di uno di loro, senza genitori presenti. Il clima si surriscalda a tal punto che le cose non sono più chiare: una di loro torna a casa, ma l’altra rimane. In un tempo difficile da computare con il cronometro della realtà, avvengono una serie di rapporti sessuali che coinvolgono i tre in un vero e proprio stupro, accusa accertata al momento per uno solo dei tre presenti a casa.
Consumata la violenza, la ragazza torna a casa, i ragazzi sembrano consapevoli di quanto accaduto e si interrogano sul da farsi. La vittima racconta tutto alla sorella e in poche ore le forze dell’ordine arrivano a casa dell’accusato che, nel frattempo, aveva tentato di mettere in piedi la propria fuga.
Il racconto dell’orrore si intreccia con la vita di cinque ragazzini che stanno imparando ora il significato delle parole, che hanno fretta di diventare grandi e di vivere come gli adulti. È proprio questa corsa verso il modello di adulto che hanno nella mente e nel cuore che li espone a voler bruciare le tappe e a prendersi con la violenza ciò che pensano sia da sempre preparato per loro, a loro dovuto. E qui si ritorna a quell’immaginario che nutre la loro libertà, un immaginario in cui dominano gli eccessi, il rubare la vita come paradigma del vivere.
Dopo tanti secoli rivive in questo tempo post-cristiano l’ideale pagano di Prometeo, che ruba agli dei ciò che non riesce a custodire in un rapporto, ciò che non riesce ad avere dentro una relazione. Bisogna insegnare l’arte del tempo, l’arte dell’attesa, il senso della sconfitta, la nobiltà della perdita, la forza dell’errore. Bisogna insegnare il rispetto dei confini, le distanze dell’amore, la gioia di un sesso voluto e non strappato. Bisogna insegnare tanto.
Ma per insegnare queste cose non solo occorre averle imparate, è necessario esserci. In fondo, se togliamo i nostri incontri, le nostre ore di lezione o di appuntamenti prefissati, le nostre mille iniziative, che cosa rimane? La rivoluzione educativa avverrà quando, tolte tutte le sovrastrutture che oggi ci illudono di educare – mentre stiamo solo compiendo azioni o moraliste o narcisiste –, rimarrà al centro della scena un Io e un Tu, un rapporto. Che è il più grande vaccino contro ogni violenza, che è la più grande speranza per un cuore che brama la vita. E che deve smettere di divorarla. Per imparare a gustarla.
Che quei ragazzi stasera, quando andranno a letto, possano trovare nel proprio dolore e nella propria rabbia un riflesso del Cielo, un desiderio di stelle.
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