Mattina di ferragosto: tra il caffè e la fetta biscottata il telegiornale divulga la notizia della morte di una donna di 43 anni, Manuela, di Treviglio. Il giornalista non termina di dire l’età della vittima che già aggiunge all’informazione del decesso, per omicidio, quella dell’autrice: la figlia di 15 anni.
La fetta biscottata si arresta in bocca, in un istante di gelo che non ci sarebbe stato – triste riconoscerlo, ma vero – se ad uccidere la donna fosse stato un ladro, un estraneo o un ex. Si resta invece pietrificati ascoltando che a conficcare un coltello da cucina nel petto della donna sia stata proprio la figlia. A nulla vale la corazza ai drammi individuali o mondiali, costruita a difesa dal tam tam di violenze quotidiane, non sempre facili da concepire.
Lascia senza fiato il coinvolgimento di una giovanissima, una studentessa di seconda superiore, che accortasi delle conseguenze del suo gesto chiama i soccorsi, dichiarando: “Ho bisogno di aiuto, ho fatto male a mia madre”. Quanta lucidità ed onestà in queste frasi! Ho bisogno di aiuto. Niente di più vero per descrivere ciò che le serve e servirà. Avrà davvero bisogno di aiuto, perché non potrà farcela da sola ad affrontare quel che ha compiuto. Ha fatto male a sua madre e riesce ad ammetterlo, si prende la responsabilità dell’atto, senza esitazione e senza giustificazioni, non rifugge dalla realtà e la descrive in tutta la sua atrocità.
Non c’è ragione che regga, non c’è motivo che possa giustificare il suo gesto; inutile cercarne. Non ce ne sono e se mai ce ne fossero non sarebbero comunque convincenti. Eppure è accaduto. Eppure accade che in casa si consumino tragedie mortali. Un coltello da cucina, magari lo stesso usato chissà quante volte per affettare pane, verdure o altri cibi gustati insieme, il coltello asciugato e riposto nel cassetto dopo pranzo o dopo cena. Quello stesso coltello coinvolto nella quotidianità calda di una famiglia diviene arma letale per un omicidio agghiacciante.
A breve si valuterà la capacità di intendere e volere della ragazza e si ricostruirà la storia della relazione madre e figlia. Anche il rapporto della ragazza con il padre, non ancora nominato nei brevi articoli comparsi sui social e nei media, sarà oggetto di attenzione per inquirenti e giornalisti. Si ricostruiranno le ultime giornate, le ore che hanno preceduto l’accoltellamento, ma nulla sembrerà sufficiente a giustificare i fatti, perché il pensiero si rifiuta di accogliere la possibilità di una tale violenza agita da una ragazzina. Litigate, rimproveri, punizioni o critiche, magari per aver montato male un mobile – come quella da cui sembrerebbe essere scaturito lo scontro – saranno percepite come poca cosa a fronte di una donna a cui la figlia ha tolto la vita, facendo a pezzi anche la propria.
Eppure conviene a tutti evitare ogni riduzione dell’atto, compresa la ragazza che ha già iniziato a chiamare le cose con il loro nome: “ho fatto male a mia madre”.
Va riconosciuto ed ammesso che l’uomo, anche giovane, giovanissimo, e così le donne, poco più che bambine sono capaci di fare male e di offendere fino ad uccidere, anche i familiari.
Tra le azioni possibili, accanto a quelle che ci piace associare all’umanità, vi sono anche quelle violente, e quelle tanto estreme da risultare indicibili. Si finisce così, di fronte al sangue che cola in casa, col parlare di raptus o di azioni inconsulte riconducibili a malesseri invisibili, come sembrerebbero sostenere le testimonianze delle persone vicine, ogni volta incredule, davanti a fatti analoghi.
Questa universale incredulità è ipocrisia e paura di guardare in faccia all’umanità propria e di chi ci è più vicino. Fare il male ad un altro, ma anche a se stessi, è possibile e non accade dall’oggi al domani; può sì essere un atto repentino, ma non senza una preparazione del pensiero. Richiede tempo e si articola spesso sin dall’infanzia, cioè da quel tempo in cui il bambino comincia a sperimentare il potere dei suoi atti e a correlarli a mete e mezzi, primi tra tutti i suoi simili. In questa costruzione dell’esperienza del proprio potere qualcosa può andare male, può essere “montato male”, proprio come Manuela aveva detto appunto alla figlia, qualche momento prima della fine. “Hai montato male il mobile” sembrerebbe essere stata infatti una delle sue ultime frasi. Potremmo raccoglierla ed osservare che aveva ragione: qualcosa era stato davvero “montato male”, ma cosa oltre al mobile? Ed ancora, quel “hai montato male”, come sarà risuonato alle orecchie della ragazza? A quali altri montaggi sbagliati l’avrà ricondotta?
Possiamo esserne sicuri, “qualcosa” è stato davvero “montato male”, più precisamente pensato male, qualcosa che riguarda Manuela e la figlia, senza escludere gli altri, la stessa società che sembrerebbe non aver orecchie per la rabbia, la delusione, la paura di non riuscire a piacere o a creare condizioni per coniugare la propria soddisfazione con quella altrui.
In un contesto sociale pronto a raccontare vittorie e record, o a descrivere la distruzione, senza approfondire i vissuti di chi la agisce o subisce, urge la possibilità di entrare negli errori, primo tra tutti quello che fa fuori la pensabilità stessa dell’altro come irrinunciabile partner della nostra soddisfazione.
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