La procura di Pescara ha commentato subito: “Caso delicatissimo”. Sul motivo, al di là del fatto che vittima – Thomas Christopher Luciani – e presunti omicidi sono minorenni, possiamo azzardare un’ipotesi: i due arrestati non vengono dai bassifondi sociali o da famiglie in difficoltà economica: sono figli di un carabiniere e di un’avvocata. Tutori dell’ordine, difensori di imputati, esponenti insomma di una società che ha tra i compiti fondamentali la sicurezza dei cittadini e la tutela dei diritti fondamentali. Invece, proprio da lì arrivano i diciasettenni italiani fermati poche ore dopo il delitto di un loro coetaneo di origini albanesi rinvenuto senza vita, con ferite da taglio, all’interno di un’area verde poco fuori il centro cittadino di Pescara nota per essere una piazza di spaccio. E la droga pare rappresenti il movente del fatto.
Qui come altrove, non si capisce perché una “nota piazza di spaccio” continui impunita la propria attività malavitosa: se è nota, perché le autorità cittadine non intervengono con ogni mezzo lecito per smantellarla? Forse lo faranno ora che c’è scappato il morto? Cosa impedisce il ripristino della legalità, che fra l’altro ha come protagonista una esigua minoranza di cittadini a scapito della stragrande maggioranza?
Domande non nuove e che probabilmente rimarranno ancora senza risposta, ma ciò che colpisce più in profondità perché tocca le corde dell’umano è ben altro. Si chiama indifferenza. Quel sentimento (o mancanza di sentimento?) per cui il dolore dell’altro, la fatica dell’altro, la domanda dell’altro – in una parola: l’altro in sé – non mi comunicano alcunché. Peggio: mi sono di ostacolo, quindi ne faccio ciò che voglio. Indifferenza per la vita e per la morte che è come dire il ritorno all’uomo della clava, “quello della pietra e della fionda” cresciuti “senza amore, senza Cristo” come quando “il fratello disse all’altro fratello: Andiamo ai campi” gridato da Salvatore Quasimodo in Uomo del mio tempo. Ma che ne sanno, ragazzi cresciuti così (o forse sarebbe meglio dire non-cresciuti) di Quasimodo e della violenza della guerra da lui descritta, della poesia che canta le domande più profonde dell’essere umano, di Cristo nato, vissuto e risorto proprio per rispondere a questo abisso di umanità, dell’amore – anche non cristiano, anche semplicemente umano – che sa abbracciare l’altro o almeno lo rispetta della sua integrità?
Eppure sono giovani cresciuti in un mare di sub-cultura canzonettistica dove la parola amore prorompe ad ogni strofa, dove viene cantata la libertà di fare ciò che si vuole e quindi di amare come pare e piace, che riempie gli stadi col non-senso (non sempre, ma spesso) di testi vuoti e di musiche ripetitive. Giovani cresciuti così, senza arte né parte e cioè – stringi, stringi – senza una famiglia e una scuola degni del nome perché incapaci di trasmettere punti fermi ai quali ancorare la fragilità di esistenze immature, possono dunque aggredire per 200 euro (così le notizie di agenzia), uccidere come si farebbe con un animale da macello (che, invece, viene ucciso senza che provi sofferenze o almeno così si dice) e poi (se l’accusa venisse confermata) andarsene bellamente al mare perché, dopo tutto, è estate e un bel tuffo in Adriatico è un diritto che non si può negare.
Poveri ragazzi, vien da dire. Quello che ci ha lasciato la vita dopo aver salutato un Paese, proprio al di là dell’Adriatico, che a fatica cerca di risollevare la testa dopo decenni di miseria nera; quelli che togliendo la vita altrui hanno finito con ipotecare la propria. Vittime tutti, anche se in modo diverso, di una cultura dello scarto dalla quale sarà ora difficile riemergere.
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