Una morte di una diciottenne in un giardino per bambini nel quartiere romano di Portonaccio (vicino a casa mia), sa di assurdo, anzi, di scandalo. Perché la ragazza è stata trovata impiccata con le mani legate (davanti), ma quel gesto non c’entra col bondage: vuole solo dire che la poverina aveva voluto prevenire l’istinto di sopravvivenza che l’avrebbe spinta a liberarsi, negli ultimi tragici istanti, quando la corda avesse cominciato a stringere inesorabile.
Non è una storia di femminicidio ma è una storia di disperazione a causa della depressione. È la cronaca della tragica fine di Giorgia S., la diciottenne trovata impiccata e, appunto, con le mani legate al palo presente nell’area dei giochi del parco di Galla Placidia.
I genitori ne avevano denunciato la scomparsa la sera prima al vicino commissariato di sant’Ippolito, riferendo anche che la ragazza aveva precedentemente tentato il suicidio dopo un periodo di depressione. Proprio nei giorni del ritorno a scuola – chissà se è solo una coincidenza… – la cronaca ci offre un tragico pugno nello stomaco. Parco giochi, bambini, diciotto anni, dovrebbero essere tutte cose che richiamano la vita e la gioia, e invece arriva un gorgo di mistero che ti inghiotte con le parole suicidio, morte, depressione. Un male invisibile, quest’ultimo, soprattutto quando hai diciotto anni e tutti si aspettano che tu sia felice. Un male che ti lega le mani, così come accaduto a Giorgia.



Le indagini faranno il loro corso e magari si scoprirà tutt’altro ma, al momento, tutto fa pensare che sia proprio la depressione, il grande male del nostro tempo, l’assassino. Giorgia ci parla di una morte che avviene anche se la famiglia è presente, anche se sei giovane, anche se hai tutto il futuro davanti. Un assurdo, insomma. Un assurdo che ci fa confrontare con il mistero, con il dolore, con la fede, con la nostra idea di amore, e ci fa riscoprire ciò che è essenziale e ciò che è inutile. Che ci fa riflettere ancora una volta sulla depressione. Su come sia da incoscienti e irresponsabili negare, quando c’è, l’esistenza di questa malattia dicendo, magari ai nostri figli, che sono sfaticati, pigri, o con poco carattere.



E che, all’altro estremo, sbagliamo quando diciamo di “essere depressi”. Noi non “siamo” mai depressi. Abbiamo, quando ce l’abbiamo veramente, una malattia che si chiama depressione. Noi non siamo la nostra depressione; noi, se parlassimo correttamente quando veramente siamo ghermiti da questa male, dovremmo dire: “sto attraversando una fase di depressione, un momento di depressione, mi ha colpito la malattia della depressione”.

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