Una nuova vittima dello sballo. Una giovane livornese di 19 anni è morta di notte in un locale notturno di Sovigliana, frazione di Vinci (Firenze), durante una serata che avrebbe dovuto essere solo all’insegna del divertimento. Erika Lucchesi, questo il nome della ragazza, a quanto risulta dalle indagini si sarebbe sentita male intorno alle 4.15. Al momento gli inquirenti ritengono assai probabile che la morte possa essere stata causata dall’abuso di alcol e droghe.



Sul tema delle morti del sabato sera recentemente si è espressa anche Susanna Tamaro che ha scritto di giovani senza memoria e senza storia, figli di genitori che vogliono evitare loro ogni sofferenza ma anche ogni fatica della conquista, e di un’epoca, il 68, che ha illuso tutti rispetto al fatto che libertà significhi anarchia e che ogni desiderio sia espressione di un diritto.



Non so cosa pensasse Erika nel momento in cui si è condannata ad una morte tanto tragica, e non so cosa mi direbbe dello scritto dell’autrice di Va’ dove ti porta il cuore. Io non oso pensare a quali possano essere i meccanismi per cui un giovane che dovrebbe amare la vita, vivere di progetto ed ideali, finisce per incatenarsi alla schiavitù della dipendenza e a condannarsi ad una morte umiliante. Non lo so. Susanna Tamaro invoca la solitudine, l’assenza di memoria, l’essere cresciuti in un contesto di iper-protezione, riportando quindi tutto alle influenze culturali. Non voglio dire che questi elementi non possano essere delle cause o delle concause, ma temo che possa esserci la tentazione di semplificare. La “gioventù bruciata” è sempre esistita assieme ad una gioventù eroica ed idealista.



Abbiamo giovani come Erika e anche giovani come Greta Thunberg: magari Erika aveva partecipato ai Friday For Future anche se aveva bisogno di una come Greta per decidere di mobilitarsi. Non ci sono solo le ragazza che muoiono in discoteca. Ci sono anche le giovani ricoverate per neoplasie a vario titolo e che hanno fatto un calendario dove si sono fatte ritrarre in modo che fossero evidenti i segni della malattia contro cui stano combattendo.

Ci sono giovani che si perdono perché nati in situazioni di disagio e altri che invece proprio dalle medesime condizioni di disagio riescono ad emanciparsi conducendo vite esemplari. Ci sono ragazzi di famiglie “perbene” che si macchiano dei peggiori delitti ed altri invece che da quelle famiglie perbene imparano in famiglia la generosità e l’impegno.

Direi che nel bene e nel male non ci sono ricette sicure. Certamente funziona l’esempio ed è vincente rispetto alle chiacchiere. Certamente la coerenza e la testimonianza personale vincono sui bei discorsi. Di sicuro ha ragione la Tamaro a ribadire l’importanza della memoria e della cultura quali antidoti per ogni dipendenza. Ma poi rimane comunque che ogni ragazzo, ogni essere umano è un mistero. Che l’educazione è una scommessa di libertà. Tu puoi chiamare, educare, accompagnare ma poi tocca all’individuo scegliere.

E allora forse più che stare sui valori generali, dovremmo conoscere di più i pensieri e le vita di ciascuno di questi ragazzi. Io non conoscevo Erika e non so cosa pensava. Magari, dall’al di là da dove mi guarda, vorrebbe dirmi che quello che le accaduto è stato solo uno sbaglio, l’eccesso di un momento. Conosco tanti detenuti che raccontano di aver commesso i loro delitti in istanti, od ore, di buio, di follia. Probabilmente l’altre sera per Erika la discoteca non era musica e divertimento ma sballo e alienazione. Magari è stata l’unica volta, magari era ogni volta così. Chi erano gli amici? Ne aveva? A scuola nessun insegnante si è accorto che qualcosa non andava? E a casa? Anche se andava tutto bene, Erika percepiva affetto, comprensione, vicinanza?

Sono queste le domande che ci devono provocare. E dobbiamo accettare che molte rimangano senza risposta. Magari potessimo dire che è tutta colpa del 68 o dei social o dei genitori. Purtroppo – o per fortuna – i conti, con gli esseri umani, non tornano mai. O, diciamo, tornano solo se a contare ci si mette Dio. E alla fine Erika rimane, in conclusione, un mistero doloroso per cui pregare e da custodire.