A Torino un ragazzo è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale CTO perché si è gettato dal quinto piano della sua abitazione a Mirafiori. Dopo l’ennesima discussione, la mamma aveva deciso di sottrargli il pc attraverso il quale il 19enne viveva perennemente connesso a internet. Purtroppo il ragazzo era affetto da sindrome di hikikomori, sicuramente il genitore ne ignorava la gravità e leggeva il comportamento del figlio come semplice pigrizia, scontrosità e timidezza.
L’hikikomori è il nome di una malattia che colpisce in Italia 100mila ragazzi tra i 15 e i 25 anni e che costringe le persone che la patiscono a svolgere attività solitarie, ad invertire il ritmo del sonno e a chiudersi in stanza proibendosi di uscire soprattutto, come nel caso del ragazzo torinese, in due momenti delicatissimi dell’esistenza: l’inizio e la fine delle scuole superiori. Gli altri si diplomano, si laureano, fanno sport, hanno un amore, trovano lavoro e i malati di hikikomori rimangono chiusi in una stanza.
La colpa però non è, come credeva la madre, di internet o del pc, ma del confronto con gli altri, che per una persona affetta da hikikomori diventa qualcosa di insopportabile. L’errore commesso da quella madre è un errore che possiamo commettere tutti. Non è facile riconoscere le persone colpite da hikikomori come non è facile in generale diagnosticare quelle nuove dipendenze che in qualche modo hanno a che vedere con internet.
A noi tutti, per esempio, capita di osservare, infastiditi, gli adolescenti che non staccano l’attenzione dallo smartphone e magari borbottiamo tra noi stessi dicendo che sarebbe facile imporsi un’autodisciplina o esigerla dagli altri, per lo meno in certe situazioni: classe, ufficio, chiesa. Ma non è così semplice. Abbiamo mai sentito parlare di Fomo? È il volgare fenomeno del guardare continuamente lo smartphone ed è un acronimo che sta per “Fear of missing out”, letteralmente la “paura di essere tagliati fuori”. Ma, ancora una volta, appunto, la connessione con internet non è la causa, ma il sintomo, perché il desiderio di essere sempre collegati deriva dall’ansia di essere tagliati fuori da ciò che fanno gli altri, di essere degli esclusi, insomma.
Tornando all’hikikomori, è qualcosa che si cura con sedute di psicoterapia e psicofarmaci e la colpa non è di internet: quella è solo la manifestazione di una crescente difficoltà e demotivazione nei rapporti con i conoscenti, al punto che il confronto con gli altri è insopportabile: per questo si chiudono in stanza.
Cosa fare se mentre leggiamo queste righe ci viene in mente il volto di qualcuno che amiamo? Semplicemente abbandoniamo l’idea che le cause si curano rimuovendo i sintomi, come è accaduto con la povera madre che ha tolto il pc al figlio, e cerchiamo degli specialisti, perché in Italia i malati di hikikomori sono tantissimi. Non fasciamoci la testa e non disperiamo e mettiamoci in contatto con degli esperti, che ci aiuteranno a venirne fuori. Troviamo il professionista giusto che capisca di cosa stiamo parlando e che non confonda l’hikikomori con la pigrizia, la timidezza, la depressione o con le fobie.
Niente panico, dunque: è una malattia delle società capitalistiche, ma bisogna trattarla come tale. Con professionalità. E poi preghiamo per il 19enne, di cui giustamente non viene fatto il nome, e per la sua povera madre.