Togliersi la vita a diciannove anni. Per qualcosa che ti ingombra dentro e che ti dice che, in fondo, non sei all’altezza, non ce la farai. È successo stavolta allo Iulm di Milano, nei bagni dell’edificio 5 che dà su via Santander. È successo ad una studentessa del corso di Arti e Turismo, classe 2003, che certamente sentiva il rimorso per un esame non dato nella prestigiosa e costosa università privata meneghina.
Ma l’esame era solo la punta dell’iceberg di vicende personali e tormenti che hanno fatto apparire la prospettiva di vivere come impossibile. Il suo testamento in un povero biglietto rinvenuto dal custode assieme al corpo. Un corpo impiccato ad una semplicissima sciarpa e un testo segnato da una parola più grande di tutte le altre: fallimento. Ma come può apparire fallita una vita a diciannove anni? Di quali aspettative si sentono oggetto i ventenni di oggi, fragili, nati tutti nel nuovo secolo?
C’è un dolore che abita nel cuore di questi universitari che nessun social, nessun podcast, nessuna notte di sesso o sballo può cancellare. Dopo una vita passata ad essere protetti e schermati dalla realtà, il duro contraccolpo con il mondo adulto rivela un’amara delusione: quel diventare grandi, cercato e agognato per tutta la vita, si scopre che coincide col rimanere soli, senza una vera appartenenza e senza un perché.
E non bastano le serate trascorse ad annegare l’amarezza nei locali delle città, non bastano gli amici che sono messi come te, se non peggio, non bastano le nuove idealità che assicurano la felicità quando tutti avremo il diritto di far tutto. Il cuore è solo e lo sa, sgomento per aver colto che la promessa della vita non coincide più con la promessa della felicità. Il cuore è senza speranza, schiacciato dai propri limiti, dalle proprie sconfitte, dai propri insuccessi. Tutto attorno sembra troppo per continuare a vivere.
E anche gli adulti, quegli adulti fino a quel momento ignorati da un’adolescenza presuntuosa e caparbia – come devono essere tutte le adolescenze –, si mostrano per quello che sono: difettosi e desiderosi di trovare riscatto nella vita dei figli, tutti presi a trasferire su di loro il proprio schema di perfezione, i propri tempi, i propri valori.
Nessun uomo potrebbe vivere a lungo in queste condizioni, nessun uomo – infatti – potrebbe essere trasformato in speranza senza deludere. Quando si perde il senso di Qualcosa di più grande, di Infinito, che possa compiere la vita, l’altro diventa la mia speranza. Mariti che sperano nelle mogli, mogli che sperano nei mariti, genitori che sperano nei figli, amici che sperano negli amici, comunità che sperano in sé stesse. Viviamo nel tempo del grande ricatto, in cui tutti siamo guardati con aspettative infinite che non possiamo soddisfare.
Avendo perso Dio, è rimasto solo l’uomo. Ma l’uomo è troppo poco per il cuore. L’educazione oggi si concentra su alcuni dettagli secondari che non hanno niente a che vedere con l’apertura del cuore che è necessario avere per sostenere fino in fondo l’urto della vita. A quattordici anni i nostri ragazzi sono pieni di nostalgia, a sedici di struggimento, a diciannove di disperazione. E con la disperazione nel cuore o entri nell’ingranaggio del sistema, che soffoca tutto e ti rende perfetto per il consumo, oppure non ce la fai. E ti uccidi. Non basta che la mamma ti voglia bene. Manca l’amore di Dio, la fiducia di Uno che ti offre come prospettiva l’eternità.
Quando la morte non fa più paura è perché è la vita ad essere diventata spaventosa. E chi ci salva dallo spavento è l’abbraccio improvviso di un Altro con cui ricomincia tutto, con cui tutto può essere perdonato.
Nei bagni dello Iulm è dunque rimasta un’ombra di morte. Il dolore che è deflagrato in quei corridoi è un grido che non si spegne e che chiede a tutti, in fondo, di rispondere alla domanda più vera e più radicale di tutte, quella sul motivo per cui siamo al mondo. Quella sul perché le cose, tutte le cose, comincino. Il valore dell’uomo non coincide con quello che riesce a realizzare, ma con lo sguardo che determina la propria vita. In un tempo impregnato dagli odori della morte non c’è cuore che non desideri sentire il profumo della resurrezione. Distrarsi da questo significa soltanto condannarsi alla lunga fila che porta al bagno dell’edificio 5.
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