Il pandemonio che tutti chiamano pandemia è iniziato circa due anni fa. Diciamo circa perché la data d’inizio non è affatto certa. Nella forma in cui la conosciamo oggi l’epidemia è partita da quel laboratorio di Wuhan verso la fine del 2019; tuttavia, in Cina, il coronavirus circolava da decenni. Conviene, dunque, lasciare sullo sfondo la data d’inizio, che è solo convenzionale, preoccupandoci, invece, di accelerarne la fine.



Se riposizioniamo la mente a quando l’epidemia è esplosa in Italia, ci sembra sia passato un secolo, tante sono le novità. Il virus ci ha cambiati non poco: ha cambiato il nostro modo di pensare, ci ha obbligati ad adattare i nostri comportamenti, sta cambiando i nostri atteggiamenti verso il futuro. Quindi, ancora per un certo numero di anni, per ciascuno di noi, il futuro sarà diverso da come sarebbe stato senza la pandemia. Per capire come potrebbe essere, analizziamo criticamente ciò che è successo in questi due anni.



Torniamo ai primi mesi del 2020. Da vari mesi, i medici segnalavano alle autorità sanitarie nazionali il manifestarsi di una polmonite “strana” (bilaterale e interstiziale), rarissima in Italia. Per un po’ di tempo, la cosa è passata sotto traccia, finché non si sono verificati, soprattutto in alcune zone dell’Italia settentrionale, dei violenti focolai infettivi causati da quel coronavirus che oggi conoscono anche i bambini della scuola materna, ma che prima non conoscevano neppure i medici.

Quando si capì che il virus poteva causare un’ecatombe, dal 9 marzo (era presidente del consiglio Giuseppe Conte), è stato imposto il lockdown, la costrizione in casa, dell’intera popolazione. Dopo qualche tentennamento, l’11 marzo, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) chiamò pandemia l’epidemia che stava travolgendo il mondo.



L’osservanza delle regole restrittive frenò la diffusione del virus e, dopo qualche mese, in Italia, si tornò alla normalità. Durante l’estate, il virus ci lasciò in pace, tanto che molti credettero che l’epidemia fosse finita. Appena dopo l’estate, ripartì, invece, una seconda e più grave fiammata e abbiamo iniziato ad assimilare il significato di variante, ossia di virus che, via via che si sviluppano le infezioni, cambia natura e varia così la sua contagiosità e il rischio di gravi effetti. Di fiammate infettive, in Italia, ne abbiamo sofferte varie altre, quella in corso è la quinta.

Verso la fine del 2020, sono stati resi disponibili i primi vaccini. In pochi mesi, prima il personale sanitario, poi (chissà perché) quello universitario, infine l’intera popolazione è stata vaccinata. Non proprio tutti, perché si sono manifestati i cosiddetti no-vax, persone che temono il vaccino più del virus. Verso ottobre del 2021, quasi il 90% della popolazione adulta e quasi l’80% di quella in età 12-17 anni è stata vaccinata. Per i bambini sotto i 12 anni si è atteso un vaccino specifico, poi è stata presa la decisione di somministrare una dose ridotta di un vaccino preesistente ed è così iniziata la vaccinazione anche dei bambini di 5-11 anni (al 16 gennaio 2021, il 23% ha avuto almeno una dose).

Nella seconda metà del 2021, mentre nel mondo si stava finendo di inoculare le seconde dosi, alcuni studi dimostrarono che la vaccinazione perde efficacia con il passare del tempo: la protezione diminuisce del 20% tra il terzo e quarto mese e del 12-20% (secondo i paesi) nei successivi due mesi. Si è così avviata anche in Italia l’inoculazione di una terza dose di vaccino che riporta la potenza protettiva del vaccino ai massimi livelli contro il rischio di gravi conseguenze dell’eventuale contagio.

In Israele, uno dei paesi più attenti al contenimento dell’infezione, è iniziata l’inoculazione anche di una quarta dose. Inoltre, le case farmaceutiche stanno studiando nuovi vaccini. Quindi, quello dei vaccini è un capitolo che viene continuamente riscritto.

In questi due anni sono cambiate molte abitudini. I ragazzi di ogni ordine scolastico hanno sperimentato la didattica a distanza, molti lavoratori il cosiddetto smart working (termine esclusivamente italiano perché in inglese fa remote working), i giovani lunghe astinenze da discoteca, i calciatori gli stadi senza pubblico, gli scienziati i convegni sullo schermo dei computer eccetera. Inoltre, sono drasticamente cambiati i modi di viaggiare, di comunicare, di spendere e di risparmiare; sui balconi di casa si sono coltivate erbe aromatiche e sono diventate più virtuose le abitudini alimentari; sono sensibilmente diminuiti i matrimoni, le nascite, il lavoro giovanile. Insomma, abbiamo vissuto al minimo.

Le regole di distanziamento si possono considerare forme di adattamento ad una situazione particolare che, passata la buriana, possono ritornare com’erano. Ciò che, invece, è realmente diverso nella testa degli italiani è la prospettiva del futuro: aneliamo a viaggiare, a investire, a procreare, a fare nuove attività, a fare ricerca su temi che non siano solo attinenti al virus. Aneliamo al futuro, ma facciamo fatica a immaginarlo e a programmarlo. I progetti sul futuro restano nel limbo della volontà. Continuiamo a sperare che la pandemia si trasformi in endemia, cioè in quella normalità che implica convivenza con il virus, in modo simile alla convivenza con i numerosi altri virus che ci danno ciò che chiamiamo genericamente influenza. Un bel problema se, pur di uscirne, speriamo nell’influenza.

Se analizziamo l’incidenza dell’influenza negli anni della pandemia, possiamo intuire come sia possibile uscire dalla pandemia stessa. Fino al 2019, in Italia, l’influenza causava ogni inverno la morte di circa 18mila adulti, quasi tutti per complicanze da polmonite. Nell’inverno 2020/21, i morti per influenza sono stati pochissimi, poco più di mille (dati Iss-InfluNet). L’inverno 2021/22 non è ancora finito, ma per ora sembra simile al precedente. La pratica scomparsa dell’influenza dalle statistiche può essere dovuta ad una – voluta o accidentale – assimilazione di quasi tutta la mortalità per polmonite a quella causata dal coronavirus, ma può anche conseguire alla forte attenzione della gente verso il rischio di Covid, nel senso che l’uso delle mascherine, il distanziamento e quant’altro hanno protetto le persone cagionevoli anche contro virus diversi.

Può anche darsi che sia vera sia l’una che l’altra ipotesi, ossia che le pratiche anti-Covid combattano anche l’influenza stagionale e che la sovrastante attenzione per il coronavirus condizioni persino la compilazione delle schede di morte. Vogliamo essere precisi: se uno muore di cancro e ha anche il coronavirus, dipende da quale delle due diagnosi il medico scrive per prima sulla scheda, quindi se scrive coronavirus come prima diagnosi, sulle statistiche sarà conteggiato tra i morti causati dal virus, non dal cancro.

Per sapere come gli italiani valutano il loro vissuto durante questi due anni, abbiamo intervistato, tramite web, un campione di italiani, ponendo la seguente domanda: “Su una scala da 1 a 5, dove 1 è il massimo disaccordo e 5 il massimo accordo, quanto è d’accordo con ciascuna delle affermazioni che seguono?” e facendo seguire 11 affermazioni. Le risposte ottenute, trasformate in percentuali per renderle più leggibili, sono elencate nella tabella seguente. Sono state, inoltre, distinte dalle altre le risposte date dalle persone contrarie alla – o incerte sulla – vaccinazione (ultima colonna), persone che costituiscono, complessivamente, l’8,5% del campione.

Tabella. Percentuale mediana di accordo degli italiani con affermazioni inerenti a istituzioni sociali durante la pandemia (dati rilevati nel 2021 su scala 1-5, min=1; max=5; valori mediani trasformati con la formula P(x)=100*[x-min]/[max-min], dove x è la mediana delle risposte).

Affermazione Tutti gli italiani No-vax e incerti
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dato le giuste dritte durante la pandemia 46,4 23,6
La mia stima per l’Unione Europea è aumentata per come ha affrontato l’emergenza 46,1 19,6
La gente è stata contagiata dal virus più dentro gli ospedali che fuori 32,1 37,5
Gli enti pubblici locali (comune, ASL, etc.) sono stati pronti ed efficienti nel gestire l’epidemia 46,4 31,3
Gli scienziati hanno dato un decisivo contributo nella lotta al virus 81,9 58,7
Ho ammirato la disponibilità dei medici di base durante l’epidemia 55,7 48,4
Le televisioni hanno sempre informato correttamente sull’epidemia 28,4 9,7
I social media sono stati per me una fonte preziosa di informazioni non ufficiali sul virus 28,9 33,0
Durante i lockdown (chiusure in casa), mi ha rassicurato l’efficienza dei negozi di vicinato 56,6 53,1
Durante l’epidemia, sono stato molto aiutato dai miei amici 47,0 34,2
Durante l’epidemia, i famigliari sono stati il mio massimo supporto 66,2 62,5

Le risposte ottenute nel sondaggio permettono di costruire una specie di scala di accettabilità. Sul gradino più alto della scala stanno gli scienziati, ai quali – aggiungiamo noi – vanno aggregati i ricercatori che, dentro le case farmaceutiche, hanno creato i vaccini e dai quali vanno sottratti quelli che hanno sproloquiato in televisione, confondendo più che informando, sul virus. Quello della comunicazione, come si vedrà nel seguito, è un problema che si somma ai disagi di natura sanitaria.

Altri ricercatori (Graffigna et al., 2021) hanno trovato che, durante la pandemia, la fiducia nella scienza è diminuita rispetto al periodo pre-pandemia. Può darsi, tuttavia la fiducia nella scienza da noi rilevata è prossima al massimo possibile.

Al secondo posto sta la famiglia. La famiglia e le mura di casa sono state, rispettivamente, il corpo sociale e il luogo che più efficacemente e compiutamente hanno permesso ai cittadini di reggere l’urto della pandemia. Tra l’altro, su questo non si rilevano differenze tra vaccinati e non vaccinati.

Quanto rilevato con il sondaggio sembra segnare un’inversione di tendenza rispetto a quell’assenza di legami sociali che, per anni, i sociologi hanno considerato irreversibile nei paesi occidentali, stante che ciascuna persona percepiva sé stessa come entità disgiunta, con deboli ed episodici legami di tipo affettivo con gli altri. Di riflesso, la famiglia sembrava avviata verso l’esaurimento del proprio ruolo sociale. Dopo la pandemia, la famiglia sembra, invece, destinata ad essere di nuovo un microcosmo solido, capace di contribuire in modo sinergico all’impiego delle energie individuali: un cardine della società.

Tra una scienza che ha dimensioni planetarie e la famiglia che rappresenta il corpo sociale più minuscolo, sta tutto il resto: le istituzioni pubbliche, nazionali e internazionali, il sistema dei servizi territoriali, tra i quali la scuola, la sanità, i servizi commerciali e di trasporto, infine gli amici e il vicinato. È interessante osservare che il livello di empatia manifestato dagli intervistati è tanto più alto quanto più i corpi sociali sono prossimi alle persone. Tra quelli più prossimi, i negozi di quartiere sono stati considerati utili dai nostri intervistati quanto i medici di famiglia, un riconoscimento importante.

L’Oms, l’Unione Europea e gli enti locali hanno ottenuto riscontri mediani di stima appena sotto il 50% del massimo possibile. L’Oms ha svolto con efficienza un ruolo di garante “politico” tra nazioni e case produttrici di vaccini, ma sembra soffrire i propri limiti tecnico-scientifici. L’Ue, nel complesso, ha affrontato la pandemia con il massimo impegno economico, anche se può aver risentito, nel giudizio degli intervistati, dei pasticci iniziali sulla prenotazione dei vaccini. I comuni e gli altri enti locali hanno fatto quello che potevano, dato che le decisioni fondamentali erano prese dal governo nazionale.

Se ci si astrae dai dati contingenti, si ha un’ulteriore dimostrazione della tesi (sostenuta, tra gli altri, da Elcheroth e Drury, 2020) che le grandi crisi e i disastri naturali rendono la società più coesa, mobilitandola contro il comune pericolo, corroborando il senso di appartenenza ai gruppi sociali e rinforzando la solidarietà tra persone. L’entità che si stacca dalle altre, in questa pandemia, è la scienza, un totem cui quasi tutti si inchinano e in cui confidano come la sola forza in grado di dominare gli aspetti avversi della natura.

Invece, la comunicazione di massa esce dal sondaggio con le ossa rotte. Non solo i social media, ma neppure le televisioni raggiungono un 30% di approvazione. La professionalità dei giornalisti è stata percepita come scarsa. La gente si aspettava che coloro che avevano un accesso privilegiato alle informazioni le sapessero collocare in un quadro che aiutasse a chiarirsi le idee, mentre è stato dato troppo spazio ai commentatori più ciarlieri e alle informazioni di richiamo, in alcuni casi depistanti. Un esempio: con decine di migliaia di contagiati e con il virus che mieteva vittime da mesi, ci siamo sorbiti per settimane in tv un’insensata caccia al “paziente zero”, come se fossimo dentro un reality.

Purtroppo, non sappiamo chi ha vinto la gara a chi la diceva più insulsa, dato che vi hanno partecipato, oltre a una pletora di giornalisti, molti virologi dell’Oms e persino ricercatori universitari che, imbeccati da ineffabili “esperti” cinesi, hanno disquisito se la catena di trasmissione del virus passava attraverso i pipistrelli, oppure i pangolini o altre povere bestie incapaci di difendersi, allontanando l’attenzione sull’origine del virus quanto più possibile da quel benedetto laboratorio di Wuhan.

Un’ultima considerazione sui no-vax e sugli hesitant-vax. Quest’ultima è una nostra denominazione che mira a distinguere all’interno del gruppo dei no-vax coloro che sono, a vario titolo, incerti sulla sicurezza dei vaccini e che sono almeno il triplo dei veri antagonisti al vaccino. Sia i contrari che gli incerti mostrano scarsa fiducia nelle istituzioni e, per quanto riguarda l’informazione sul virus e sui vaccini, mostrano di non fidarsi affatto dei giornalisti e cercano nei social media, ossia nell’informazione fai-da-te, quegli ancoraggi informativi che non trovano nelle televisioni. Non è escluso che gli hesitant-vax abbiano maturato incertezze proprio a causa di una reiterata, cattiva informazione sugli organi di informazione ufficiali.

Crediamo che l’associazione di categoria dei giornalisti possa trarre dai risultati del nostro sondaggio materia per intervenire in senso formativo sui propri associati. Almeno su coloro che vogliono informare in ambito scientifico. Ogni giornalista poi dovrebbe conoscere come vanno lette le statistiche quotidianamente diffuse. Non è ammissibile che, dopo mesi, anzi anni, di prove certe che il sistema di tracciamento dei contagi produce statistiche viziate da errore sistematico si continui, cinicamente, a commentare dati giornalieri sul contagio confrontandoli con il giorno prima.

È assodato che il sistema sa a malapena fare le somme, poiché sembra che 2 più 2 faccia 3 di sabato, domenica e lunedì, e faccia, invece, 6 di martedì e 5 di mercoledì e giovedì. Fuor di metafora, durante il fine settimana e di lunedì vari “tracciatori” hanno altro da fare che inviare dati al centro, per cui inviano i dati arretrati, compresi quelli sulla mortalità, da martedì in avanti, con calma. Ci chiediamo se sia così difficile capire che hanno senso solo gli indicatori settimanali sul contagio, ai quali (se proprio non si riesce a farne a meno) si può aggiungere un dato giornaliero. Se non lo fanno i guru dell’Iss, lo facciano i giornalisti che sanno. L’informazione che si contraddice di continuo, dopo un po’, è ignorata, così come l’informatore.

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