Veniamo ai vaccini, tema molto controverso che ha visto una grossa evoluzione durante lo svolgersi della pandemia, evoluzione di pensieri e di dati che non è ancora terminata e che potrebbe riservare sorprese in futuro.

Cominciamo col dire che in questo scritto non interessa il tema no-vax, sì-vax, agnostici, e le rispettive motivazioni, ma si vuole mettere a fuoco il problema delle conoscenze che sono emerse e che stanno (o non stanno) ancora emergendo.



Al primo apparire (fine 2020-inizio 2021) dei prodotti velocemente predisposti da alcune case farmaceutiche le questioni di cui si discuteva erano l’efficacia relativa dei vaccini disponibili (AstraZeneca, Moderna, Pfizer, …) e i loro eventuali effetti collaterali (per questi ultimi le evidenze recenti anche per il nostro paese danno conto della scarsa rilevanza del fenomeno).



Col passare del tempo, del numero di dosi somministrate, e dell’evidenza che nonostante il vaccino vi era l’emergere di soggetti infettati una seconda volta, la preoccupazione sull’efficacia relativa dei diversi vaccini ha lasciato il posto alle domande sulla durata della copertura vaccinale e sulla necessità di ripetere la vaccinazione a distanza di alcuni (e sempre di meno con l’insorgere di casi ripetuti) mesi.

Il numero delle dosi distribuite è noto, così come sono noti (nonostante emergano qua e là sporadiche segnalazioni di atti truffaldini o deplorevoli) i numeri dei soggetti vaccinati per età, per sesso e per numero di ripetizioni (prima, seconda, terza dose), ma la disponibilità dei primi dati ha poi reso evidente o incerta la, fin lì supposta, efficacia della vaccinazione: dal punto di vista numerico l’efficacia è ben documentata (si vedano, a titolo di esempio, i ripetuti rapporti dell’Iss in proposito), per quanto riguarda gli effetti più gravi (il rischio di ricovero, di trasferimento in terapia intensiva, o addirittura di decesso, non è zero per i soggetti vaccinati, ma è molto inferiore al rischio degli stessi eventi nei soggetti non vaccinati), ma parimenti è emersa tutta l’incertezza (sempre numericamente parlando) che caratterizza l’efficacia della vaccinazione per quanto riguarda la copertura rispetto all’infezione, o la durata della copertura, o la necessità di arrivare alla terza dose non essendo sufficientemente protettive solo le prime due.



Il completamento del percorso vaccinale (dose booster), almeno per le conoscenze che ne abbiamo oggi, non garantisce di non essere infettati dal virus, ma ne riduce fortemente l’impatto sanitario sia nei casi di prima infezione che in quelli di infezione ripetuta.

E’ scomparso invece dai radar il tema dell’immunità di gregge, ennesima grande illusione che ci è stata prospettata soprattutto nei primi mesi di diffusione della attività vaccinale, ma che si è sciolta come neve al sole soprattutto di fronte all’emergere delle diverse varianti che stanno caratterizzando il Sars-Cov-2 e della presenza dell’infezione in soggetti già vaccinati, al punto che taluni già pensano ad una quarta dose (se non per tutti, almeno per i più fragili) o ad una dose periodica (come nel caso della vaccinazione annuale contro l’influenza).

Certo è che il tema dei vaccini è quello che ha visto di più modificarsi nel tempo le opinioni degli esperti che sono intervenuti ed è quello che, a prescindere dalle posizioni dettate da motivi ideologici di varia natura, insieme alle prospettive sulla fine della pandemia sta presentando le incertezze più evidenti, incertezze cui la scienza non è ancora riuscita a dare risposte soddisfacenti: da questo punto di vista è auspicabile il massimo sforzo perché si arrivi a produrre un vaccino più performante rispetto a quelli in circolazione.

Un altro elemento sul quale, dopo due anni di tentativi per fermare l’insorgere dell’infezione da Sars-Cov-2, conosciamo molto poco è l’efficacia delle azioni non sanitarie messe in opera per contrastare la diffusione del virus. Lockdown più o meno pesanti, restrizioni di varia natura, distanziamento, mascherine, sanificazione delle mani, green pass, e via discorrendo, iniziative largamente sbandierate perché ritenute azioni (individuali e di gruppo) utili a circoscrivere, a ridurre ed eventualmente ad eliminare il diffondersi dell’infezione, hanno visto un loro differente utilizzo (o non utilizzo) in varie nazioni (oltre che nel nostro paese, in Inghilterra, Svezia, Germania, Cina, …): interventi ragionevoli attorno ai quali, per motivi che qui non interessa esaminare, molto si è discusso e polemizzato, ma nei confronti dei quali non ci risultano ad oggi valutazioni quantitative di efficacia.

Ricordava Alexis Carrel (medico chirurgo, biologo e fisiologo francese, premio Nobel per la Medicina e la fisiologia nel 1912) che “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità“: sul tema dell’effetto benefico (efficacia) delle azioni non sanitarie ricadiamo proprio nel caso lamentato da Carrel (tanto ragionamento, ma poca osservazione), perché le chiacchiere sono state moltissime, le prese di posizione sono risultate piuttosto diversificate, ma studi convincenti che abbiano fornito elementi quantitativi robusti a favore di una tesi o del suo contrario sinceramente non ne abbiamo visti.

Un argomento che da qualche tempo è entrato in scena è il tema delle varianti, delle loro caratteristiche e della relativa numerosità: più o meno toste in termini di effetti sanitari, più o meno infettive (quanto a soggetti colpiti), più o meno aggressive e rapide nella diffusione, più o meno resistenti ai vaccini, e così via per un elenco di attributi che sembra non finire mai e che è ritenuto caratterizzare specificamente ciascuna di esse, numerosità di varianti tanto ampia che (alla luce di ciò che alcuni esperti prefigurano per il futuro prossimo) rischia di fare esaurire le lettere dell’alfabeto greco utilizzate per identificarle (alfa, delta, omicron, …).

Al di là delle caratteristiche di laboratorio, per altro facilmente rilevabili se il virus viene sottoposto a sequenziamento, siamo sicuri di conoscere i reali attributi e le azioni di queste varianti? Ad esempio, siamo sicuri che la rapida diffusione dell’ultima ondata di infezione e la sua quasi altrettanto rapida discesa abbia a che fare con la variante omicron e non con altre motivazioni (ad esempio, i nostri comportamenti del periodo che ha preceduto, e anche nel durante, le recenti festività)? Dove sono le evidenze quantitative a sostegno di questa (o queste) tesi? E che cosa conosciamo del numero e delle caratteristiche dei soggetti infettati ma che non mostrano segni della presenza del virus? o addirittura dei soggetti immuni?

Molto si potrebbe poi dire attorno alle caratteristiche del servizio sanitario che questa pandemia ci restituisce (che caratteristiche dovranno avere la sanità e l’assistenza territoriale, la medicina di base, l’ospedale di domani? quale ruolo per le diverse tipologie di professionisti sanitari così provate, anche in termini di vite perse, dalla pandemia?) e del ruolo che possono giocare le proposte contenute nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma il tema è tanto vasto e articolato che la Fondazione per la Sussidiarietà sta preparando un corposo pamphlet in proposito e quindi ci fermiamo qui.

Riconosciamo che parlare di numeri, o semplicemente evocarli esplicitamente o addirittura pretenderli quando non ci sono o non sono adeguati, come si è fatto in questo contributo, è argomento difficilissimo, estremamente divisivo, e aperto alla polemica anche urlata.

Si deve però dare atto al Sussidiario di avere ampiamente e ripetutamente affrontato la materia, ospitando contributi eterogenei e dando spazio anche ad interventi piuttosto corposi, metodologicamente ricchi e che avrebbero potuto trovare spazio su ben altri tipi di giornali (articoli strettamente di taglio scientifico).

Particolarmente interessante da seguire, per chi scrive, è stata l’evoluzione nel tempo delle opinioni espresse (e dei conteggi effettuati) dagli esperti intervenuti, soprattutto con riguardo al tema dei soggetti deceduti (quanti sono?), dei vaccini (quale efficacia?), e delle previsioni sull’evoluzione della diffusione del virus (quando terminerà la pandemia?).

Molti aspetti che hanno caratterizzato questa esperienza pandemica oggi ci sono noti, ma come abbiamo fin qui, esemplificativamente, documentato tante sono ancora le necessità conoscitive per le quali due anni di pandemia non sono stati sufficienti per acquisire le dovute informazioni, tanti sono i dubbi e le domande che via via sono insorti e che aspettano una risposta.

Non si tratta però di sterili curiosità da soddisfare, di bisogno di colmare lacune di tipo prettamente “scolastico” o di riempire di nozioni i buchi del “groviera” di cui siamo fatti: la sfida seria è alla nostra capacità di metterci di fronte alla realtà cogliendone tutte le sue dimensioni e lasciandoci profondamente interrogare (e smuovere) da essa, perché la realtà rimanda sempre a qualcosa che è più grande della nostra capacità di misurarla o di confinarla all’interno di quello che, riduttivamente, conosciamo.

Per questo la vera libertà non può essere il desiderio di scordarci del Sars-Cov-2, di dimenticarci del virus: la giusta attesa piena di speranza che la pandemia termini, o si attenui, o diventi endemica e (si spera, facilmente) controllabile come diversi osservatori prevedono, deve e dovrà fare necessariamente i conti con il dato di fatto che già oggi non siamo più come prima e che a pandemia “terminata” lo saremo ancora di meno (Mauro Magatti: “Quando usciremo da questa pandemia non saremo più gli stessi e soprattutto non saremo tutti uguali”, Corriere della Sera del 10 gennaio 2022). Abbiamo bisogno ben altro che scordarci del coronavirus!

(2 – fine)

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