Forse è arrivato il momento che l’Italia faccia i conti con la sua vera storia del Novecento. Intendiamo quella vera, non quella illustrata e stravolta da insegnanti, professori e accademici che sono diventati dei “redenti”. E naturalmente, insieme a tanti giornalisti, che si sono sempre quasi inginocchiati davanti al “verbo” del potere dominante.
Sono gli intellettuali italiani che “vissero due volte”, secondo Mirella Serri, passando quasi “dolcemente” dal fascismo all’antifascismo, creando una delle più vergognose ricostruzioni della storia italiana, al punto da non farla comprendere e addirittura confonderla.
Del resto, che cosa ci si poteva attendere dal rifiuto del “giuramento al fascismo” fatto da una minima parte di professori universitari italiani (forse 11 o forse 13, è controverso pure questo)? E che cosa ci si poteva aspettare da frotte di giovani giornalisti che, insieme a intellettuali notissimi diventati poi fans di Stalin, aspiravano a collaborare con Primato, il quindicinale fascista diretto da Giuseppe Bottai? Forse qualcuno comincia a stancarsi di questa confusione programmata politicamente.
Occorre fare questa premessa per comprendere quello che sta emergendo in questi giorni in cui si onora la figura di Giacomo Matteotti, la sua lotta contro il fascismo, il suo discorso epico alla Camera del 30 maggio 1924 contro il governo Mussolini. E poi il suo rapimento, il suo assassinio, ordinato direttamente con tutta probabilità dallo stesso Mussolini, che decise la dittatura rivendicando l’ordine di eliminarlo dato ad Amerigo Dumini, il capo del manipolo fascista che prima rapì e poi uccise Matteotti.
In questi ultimi mesi, ad esempio, sono stati scritti una notevole quantità di libri su Matteotti e la sua grandiosa battaglia riformista contro il fascismo. Fatto positivo. Ma tuttavia è difficile spiegare, ancora oggi in Italia, la figura umana, solitaria, unita strettamente al gruppo dirigente riformista, della prima vittima del fascismo e dell’uomo che potrebbe rivendicare la vera linea della Resistenza, della Repubblica e della Costituzione.
Espulso dal Psi filo-comunista nel 1922, insieme a Filippo Turati e a tutta la corrente riformista, i fuorusciti fondarono il nuovo Partito socialista unitario di cui Matteotti divenne segretario.
Forse da qui comincia ad apparire, scavando nella storia confusa e manipolata, il Matteotti combattivo, intransigente, soprannominato “Tempesta” per la sua volontà, veemenza e determinazione.
Era sempre stato un grande antifascista, ha compreso prima degli altri che cosa fosse il fascismo, ma veniva attaccato da un liberal-azionista come Piero Gobetti, che non sopportava i riformisti socialisti e definiva Filippo Turati uno dei peggiori educatori della gioventù italiana. Veniva attaccato anche da Benedetto Croce, che forse comprese Mussolini e il fascismo con poca prontezza.
Ma Giacomo Matteotti veniva sopratutto insultato sistematicamente dai comunisti. Palmiro Togliatti, detto “il migliore” già in quei tempi sventurati, arrivò ad associare, fra i nemici del comunismo, Mussolini, Sturzo e Matteotti, considerato (secondo la dizione dell’articolo 21 del Komintern) un social-traditore e un social-fascista.
Ma anche il “grandissimo” Antonio Gramsci non risparmiò giudizi velenosi a Matteotti e lo definì ignominiosamente “pellegrino del nulla”. E sempre Gramsci, nei famosi “Quaderni del carcere”, non citò neppure una volta, non dedicò una parola al primo martire del fascismo che aveva preso il potere.
In fondo era la nota “acutezza politica” del Pci (si fa per dire), che secondo uno dei suoi fondatori, Angelo Tasca poi diventato socialista, aveva dato indirettamente una mano, proprio con la sua politica, all’avvento del fascismo, pensando che ci sarebbe stata in seguito una rivoluzione che lo stesso Pci avrebbe dominato. Forse una delle più catastrofiche linee politiche del Pci.
Tutto questo lo aveva compreso benissimo Giacomo Matteotti, che oltre a essere un intransigente antifascista, era un anticomunista che rispondeva per le rime.
In quella che, fin da cento anni fa, doveva essere la comune lotta al fascismo, Matteotti aveva compreso sia gli errori dei comunisti, sia la stessa natura del Pci. Il 17 aprile 1924, meno di due mesi prima della sua morte, Matteotti rispondeva e scriveva alla direzione del Partito comunista d’Italia che proponeva una sorta di frontismo, da dirigere ovviamente. Scriveva Matteotti: “Riceviamo la vostra lettera contenente la solita proposta poligrafata per tutte le occasioni. L’esperienza delle altre volte e dell’ultima in particolare, ci ha confermato nella convinzione che codeste vostre proposte, apparentemente formulate a scopo di ‘fronte unico’, sono in sostanza lanciate ad esclusivo scopo di polemica coi partiti socialisti, e di nuove inutili dispute. Restiamo ognuno quello che siamo: voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siano socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla di comune tra noi e voi”.
Sarebbe un bene approfondire ancora tali questioni e momenti storici. Troppo facile risolvere i problemi con uno striscione dedicato a Matteotti il 25 aprile. Tanto meno si risolve l’ostracismo verso il riformismo socialista, ammettendo solo parzialmente “qualche errore”, non solo storico. E si spera sempre che, oltre all’omaggio a Matteotti, si faccia una visita alla tomba di Turati, e si aggiunga pure un ricordo (mai fatto in 80 anni) al capo del Cln, cioè della Resistenza, Alfredo Pizzoni. Anche se non aveva partito e non era comunista.
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