Le elezioni regionali in Lombardia e Lazio, dall’esito ampiamente annunciato, hanno posto, come è stato osservato autorevolmente da più parti, due dati politici alquanto significativi e con una stretta relazione in termini di causalità: da un lato la vittoria del partito dell’astensione decisamente maggioritario, con un dato sull’affluenza ai seggi allarmante e quanto mai drammatico, circa il 40% contro circa il 70% nel 2018 (nello specifico, in Lombardia ha votato il 41,7% degli elettori contro il 73,1% nel 2018. In Lazio è andata anche peggio: ha votato il 37,2% degli aventi diritto, nel 2018 lo aveva fatto il 66,6%), con un calo di circa il 30% della partecipazione; dall’altro (se mai ce ne fosse stato bisogno e non fosse già sufficientemente evidente) la crisi della politica e segnatamente dei partiti politici quali luoghi di decisione e di mediazione, nonché di rappresentanza adeguata e primaria delle istanze che promanano dalla società.
Tale crisi che perdura da tempo ormai e appare inarrestabile sotto molti aspetti, è resa manifesta dalla crisi verticale dei partiti politici quali formazioni e corpi intermedi che permangono tuttavia, strumenti indefettibili per garantire la democrazia sostanziale e partecipata. I partiti politici che nell’epoca del dopoguerra hanno interpretato un ruolo decisivo e propulsivo prima nella fase della ricostruzione e della costituente democratica e poi nel garantire all’Italia un periodo di sviluppo economico con una solida collocazione a livello europeo e internazionale, hanno adempiuto a quanto previsto all’art. 49 Cost. ovvero al compito di essere strumenti della partecipazione alla vita democratica da parte dei cittadini al fine di concorrere alla formazione dell’indirizzo politico complessivo e delle scelte strategiche del nostro Paese.
I partiti per quasi cinquant’anni hanno garantito un assetto politico-istituzionale di democrazia non soltanto formale ma sostanziale, fondata sul pluralismo sociale e culturale, in cui i partiti medesimi erano assurti a terminali ed efficaci interpreti non soltanto di un dialogo con i cittadini singoli ma di vera e propria elaborazione di pensiero e di azione e di una sapiente e paziente costruzione di interazione creativa con i corpi intermedi, ovvero la molteplicità di formazioni sociali nelle quali si sviluppa e si esprime la persona secondo quanto stabilisce l’art. 2 Cost.
In sostanza i partiti politici, pur nell’ambito di un’alterità ideologica marcata in termini di visione della società e del mondo, hanno garantito fungendo da mediatori sia sul territorio sia a livello nazionale, grazie ad una strutturata organizzazione interna, un sistema di raccordo permanente tra istituzioni e società che ha impedito rigurgiti populisti ed ha vivificato il circuito democratico.
La crisi progressiva dei partiti, non soltanto in Italia ma anche in Europa, soprattutto negli ultimi decenni, dovuta ad una pluralità di cause storiche, interne ed esterne, strutturali e contingenti, ha determinato così la perdita per i partiti dell’esclusiva nel rappresentare gli interessi e le istanze della società ed al contempo l’affievolimento di un loro ruolo baricentrico ai fini della mediazione e della capacità di indirizzare le scelte fondamentali per il Paese.
I partiti così hanno perso gradualmente radicamento territoriale destrutturando la propria organizzazione interna e divenendo perlopiù comitati elettorali, taluni partiti, soprattutto quelli di maggiori dimensioni, hanno subito un processo di frammentazione, pressoché irreversibile, con la proliferazione di formazioni politiche di dimensioni modeste o irrilevanti. I partiti, inoltre, hanno perso altresì la capacità di interlocuzione con i portatori d’interesse, i corpi intermedi e le formazioni sociali, hanno smesso progressivamente di curare adeguatamente sia i meccanismi di selezione della propria classe dirigente, dismettendo la formazione politica e favorendo logiche di cooptazione autoreferenziali nella formazione delle liste elettorali per il Parlamento, infine hanno smesso perlopiù di aggregare contenuti programmatici e di essere luoghi di elaborazione del pensiero e di azione.
Tutto ciò ha generato disaffezione del corpo elettorale verso la politica e verso le istituzioni, ha incentivato il processo di fluidità delle opinioni del voto, ha favorito la tendenza ad affidarsi ai leader ed agli slogan del momento, più che ad un partito e ad un pensiero elaborato. Infine, i leaders e gli slogan scaturiscono spesso non già dalla volontà di progettare e attuare le riforme necessarie al Paese, ma dall’intenzione di intercettare, e spesso assecondare e amplificare acriticamente, tramite i social network e le piattaforme digitali, le preoccupazioni, le angosce, le rivendicazioni istintive, infine le paure e le insicurezze dei cittadini.
Pertanto, l’esito delle elezioni regionali in Lombardia e Lazio non può diventare lo spunto per rintracciare la causa della crescita spaventosa dell’astensione al voto (che si impone quale dato politico incontrovertibile) unicamente nei problemi di percezione della decisività o importanza della sfida elettorale da parte dei cittadini e nemmeno nella sfiducia degli elettori rispetto al superamento di un determinato assetto di competenze e del ruolo dello Stato e delle Regioni. L’esito elettorale conferma una volta di più, a prescindere dalle legittime valutazioni politiche di merito in senso stretto, che la crisi dei partiti è direttamente attinente alla crisi in atto della democrazia.
Quest’ultima rappresenta, infatti, una drammatica e reale emergenza non più differibile che interroga tutti e ciascuno e che dovrebbe impegnare seriamente i partiti a riprendere i fili del dialogo, in parte sopito, ed a confrontarsi con la società ed il pluralismo sociale che essa esprime, al fine di rispondere alla sfida della riattivazione di processi alla costruzione di spazi e luoghi tesi a favorire la partecipazione alla vita democratica e istituzionale del Paese.
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