Sono giorni in cui sulle prime pagine dei giornali si legge spesso di crolli in galleria e addirittura di oltre 200 gallerie a rischio. Non ricordo in passato un periodo con una simile intensità di crolli: poiché non è successo nulla di particolare, come ad esempio un terremoto, ne deduco che sia semplicemente cambiata la sensibilità dei media sul fenomeno, il quale, invece, mantiene stabile la sua l’intensità.
Questa premessa consente di affrontare l’argomento fuori dall’urgenza della cronaca e di collocare il tema della sicurezza dentro una prospettiva più ampia, utile per comprendere alcuni aspetti che fanno del nostro Paese un luogo insicuro dove fare impresa e dove amministrare la cosa pubblica. Partiamo da un’osservazione antipatica ma realistica: il rischio zero non esiste; nessuna attività umana può essere realizzata nell’assoluta certezza di non fare male a nessuno o di non rovinare nulla. Inevitabilmente, occorre accettare una certa dose di rischio e qui si chiarisce quale sia il vero problema: chi definisce il livello di “rischio accettabile”?
Il risk management è quindi diventata una disciplina che affronta, con metodologie condivise a livello internazionale, la misurazione dei rischi, misurazione che si basa sostanzialmente sulla moltiplicazione di due elementi: la “magnitudo” dei danni provocati e la probabilità che l’evento avvenga; un evento che produca un danno immenso deve essere contrastato con la massima attenzione anche se molto improbabile, mentre un evento abbastanza probabile può essere accettato se produce danni poco rilevanti.
Le imprese ben gestite si dotano di “mappe del rischio” e allocano le risorse necessarie per prevenire i rischi sulla base di queste mappe, concentrandole sui punti dove maggiore è il prodotto tra probabilità dell’accadimento e grandezza dei danni prodotti. Ci sono però ambiti di particolare importanza, dove la “diligenza del buon padre di famiglia” chiesta dal codice civile, non è ritenuta sufficiente e quindi il legislatore interviene imponendo per legge norme tecniche di sicurezza, la cui violazione comporta un illecito penale.
Negli ultimi anni questa tendenza a definire per legge gli standard tecnici è cresciuta a dismisura, sospinta da una dinamica che così possiamo descrivere in modo semplificato: quando un incidente suscita emozione nell’opinione pubblica, la politica reagisce facendo una legge che “impone” le norme di sicurezza che lo avrebbero impedito. A prima vista sembra un modo opportuno di reagire, ma non lo è affatto. Innanzitutto, non ci si chiede quale sia il costo che si dovrà sopportare per adeguare tutte le situazioni alla nuova norma; non ci si chiede se questo sia davvero il modo migliore di spendere quelle somme e se non ci siano utilizzi alternativi che possano produrre più sicurezza in altri campi; non ci si chiede, infine, se le risorse necessarie siano davvero disponibili.
Mi permetto di raccontare un fatto personale. Anni fa, sono stato eletto sindaco in una città di medie dimensioni. Per la mia cultura d’impresa, una delle prime cose fatte è stata una riunione dei tecnici del Comune con lo scopo di compilare la mappa dei rischi e la richiesta di segnalare eventuali situazioni di violazione delle norme. Sono uscito dalla riunione con la consapevolezza che ero personalmente responsabile della violazione di una serie impressionante di norme penali: non solo non era a norma il mio ufficio e l’intero palazzo comunale, ma anche molte scuole, strade e perfino le fognature. Non che ci fosse una moria di cittadini: semplicemente non c’erano le risorse per adeguare tutto alle nuove norme di sicurezza e quindi edifici e infrastrutture continuavano a essere sicure al livello ritenuto accettabile fino a qualche mese o anno prima. Sono certo che questa situazione continui a essere la normalità per la totalità dei comuni italiani.
A questo punto avviene una cosa gravissima: sulle infrastrutture non più a norma, se non ci sono i soldi per adeguarle, si smette di intervenire. Ma come! Già non è a norma, e pure si smette di fare manutenzione? È così, perché il tecnico mandato a fare un sopralluogo per un malfunzionamento sa che dovrebbe innanzitutto rilevare la non conformità alla norma e quindi far chiudere la scuola o la strada, denunciando pure chi ne ha la responsabilità per omissione di atti d’ufficio. Tutti cercano di guardare da un’altra parte anche se sanno della cosa; tutti, inoltre, sanno anche che i loro avversari (il collega che vuole prendere il loro posto, l’azienda concorrente, o l’avversario politico e il giornale che lo sostiene) possono, in ogni momento, scatenargli contro la Procura della Repubblica. Per questo si è detto in apertura, che il nostro Paese è un luogo insicuro dove fare impresa e dove amministrare la cosa pubblica: questo fa scappare gli investitori e restringe sempre più il numero di persone valide disposte ad amministrare la cosa pubblica.
Così, a partire dai massimi livelli delle istituzioni e delle imprese, parte un complesso processo di ordini verso il basso, il cui scopo è il tentativo di scaricare la responsabilità (del genere: io te l’ho detto e quindi se non lo fai io non c’entro): le lettere partite dal Ministero verso i concessionari autostradali fanno parte di questo rito (chissà se le hanno spedite anche ai colleghi dell’Anas).
Concludendo: la sicurezza è una cosa importante, ma non è moltiplicando le leggi che si ottiene; anzi, aggiungere norme produce spesso l’effetto opposto. Si può anche aggiungere: quando a livello europeo si decide di innalzare gli standard di sicurezza delle gallerie, forse sarebbe meglio che i rappresentanti italiani stiano più attenti, perché molti altri, come ad esempio olandesi, belgi, danesi, lussemburghesi, potrebbero a cuor leggero decidere standard molto alti, visto che di gallerie non ne hanno neppure una.