Perché, dopo ventinove anni, ancora oggi, è importante ricordare le vittime della strage di Capaci? Non solo per il loro grande senso dello Stato, per l’attaccamento alla bandiera e per la difesa del bene comune. E non solo per il loro fulgido coraggio nell’andare fino in fondo contro poteri marci e ostili. Ma soprattutto perché le loro vite donate parlano oggi, facendosi sentire in tutta la forza della loro sensatezza.
In un libro fresco di stampa Faccia da mostro (Rizzoli, 2021), Lirio Abbate descrive nella Palermo e nell’Italia di quel periodo un mondo inquinato e occulto, caratterizzato da personaggi inquietanti legati a poteri e interessi nascosti. Già Stefania Limiti, nel suo La strategia dell’inganno. 1992-1993 (Chiarelettere, 2017), aveva fatto notare che gli anni ’92-93 erano passati nella memoria collettiva degli italiani come gli anni di Tangentopoli, facendo dimenticare così molti episodi oscuri (attentati a Milano, a Firenze, a Roma, ecc.), tra i quali la scelta di Riina di attentare alla vita di Falcone non a Roma, ma a Capaci con un attentato eclatante, in stile militare. E come non ricordare, a tal proposito, il giudizio di fuoco sulla strage di Capaci del cardinale Pappalardo: “Ma è certamente motivo, e lo sappiamo, di particolare sgomento l’avere appreso che il giudice Falcone si muoveva in via e con mezzi che dovevano rimanere coperti dal più sicuro riserbo. Chi li conosceva? Chi li ha rivelati ai nemici dei giudici?”.
Allora, vista la buia forza di questi poteri che Antonio Leccese ha definito, in un suo recente libro, massomafie, a maggior ragione, come si spiega la scelta di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti di scorta di continuare la loro battaglia, dentro una vita assediata dal rischio continuo?
Falcone, peraltro, ricordava bene le parole dell’amico commissario Ninni Cassarà: “dobbiamo convincerci che siamo uomini morti che camminano”. Per mettere a fuoco, ora, la domanda sul senso della scelta, centrale per la sua forza, bisogna passare dal livello analitico-razionale a quello antropologico e guardare fino a quanto può essere grande il cuore di un uomo, che cerca la giustizia e la verità con un desiderio infinito. E questo misterioso e teso movimento verso l’infinito può essere intercettato dallo sguardo di un altro, tutto preso dalla stessa ricerca, dalla stessa incredibile speranza. È interessante, infatti, vedere/vederci nello sguardo di un altro, compagno al destino: con la stessa intensità, con la stessa passione, con lo stesso abbandono.
Il mistero dell’uomo Giovanni Falcone, perciò, lo si può cogliere, in certa misura, in presa diretta, nello sguardo e nelle parole di Paolo Borsellino. Maria Falcone, in Giovanni Falcone un eroe solo. Il tuo lavoro, il nostro presente. I tuoi sogni, il nostro futuro (Rizzoli, 2013) ricorda le parole del magistrato, amico di suo fratello, dette un mese dopo l’attentato, nella Chiesa di San Domenico, davanti a 30mila ragazzi: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è sempre stato pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!”; e ancora: “Se egli è morto nella carne, è vivo nello spirito, come la fede ci insegna: le nostre coscienze, se non si sono svegliate, devono svegliarsi! La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta”.
La sottolineatura dell’esperienza, dunque, di un amore più grande e attivo, in grado di attraversare persino il buio dell’essere stati lasciati soli nel grande gioco del nulla. E dunque, proprio dagli occhi e dalle parole di un altro, Paolo Borsellino, amico che ha condiviso la stessa fine di Giovanni Falcone, ci arriva dall’oltre una parola nuova: c’è ancora speranza perché uno/Uno ha dato la vita per noi.
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