Ha compiuto 25 anni di vita ed è più giovane che mai, più attuale che mai. The Truman Show fece il suo debutto nelle sale cinematografiche il primo giugno del 1998. Si era nel secolo scorso. Il web muoveva i primi passi, non c’erano social, non c’era streaming, il voyeurismo del “Grande fratello” televisivo avrebbe cominciato a imporsi solo due anni dopo. Insomma, era in gran parte un altro mondo quello in cui arrivò la storia di Truman, così bella e appassionante, così riassuntiva e così profetica allo stesso tempo. A cavallo di due secoli, il film riproduceva perfettamente i meccanismi dei regimi totalitari del Novecento (anche nelle versioni distopiche di Brave new world di Huxley e di 1984 di Orwell) e nello stesso tempo lasciava intravedere nuovi inquietanti sviluppi, di cui oggi siamo tutti testimoni.



The Truman Show è un capolavoro, l’ho percepito subito come tale, e da quella prima visione in un vecchio cinema (non c’erano nemmeno i multisala moderni) sono stato come perseguitato: Truman e la sua storia tornavano sempre in quello che leggevo, in quello che studiavo. Si trattasse di letteratura, di storia, di filosofia, le questioni poste dal film erano sempre là e ancora oggi la cosa non finisce di sorprendermi. Truman è già nel castello di Atlante di Ariosto, in una lirica dell’Antologia di Spoon River, nello strappo del cielo di carta di Pirandello, in una canzone di Gaber, nei romanzi sull’Anticristo di Benson e Solov’ëv, nelle pagine di Romano Guardini, di Luigi Giussani, di Berdjaev, di Péguy, di Leopardi.



È nell’Apocalisse, nei salmi della Bibbia, nell’Ulisse dantesco, nella Beatrice di Dante, la donna che scende all’inferno (senza esserne sporcata) per salvare il suo amato amico. Truman illustra in modo magistrale una sorprendente definizione di Hannah Arendt: “Il suddito ideale del totalitarismo è l’individuo che non è più capace di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso”. In quel film c’è anche il sistema del potere che propaga fake-news perché l’individuo resti confuso, alienato, lontano da sé. È il sistema del potere che regna terrorizzando l’individuo. Questa “persecuzione” del film alla fine mi ha costretto ad un gesto liberatorio, cioè a fissare in un breve saggio (abbastanza fortunato, considerato il fatto che l’ho pubblicato in proprio) tutti gli spunti che la vicenda di Truman mi forniva e tutti gli stimoli che vengono dall’osservazione del nostro presente in continua velocissima evoluzione. Il film è davvero ovunque.



Faccio un esempio: nel momento in cui il regista-ideologo Christof decide di impaurire Truman scatenandogli addosso una tempesta in mare, si rivolge al suo assistente, che usa un tecnicismo eufemistico e dice: “Ok, pronti ad entrare nel programma meteorologico”, che è un’espressione molto più neutra di quella che vi è nascosta (“scateniamo una tempesta”). Assomiglia tanto alla nostra Ivg (interruzione volontaria della gravidanza) o alla definizione di “legge per il fine vita”, o all’attuale “maternità surrogata”. Noi sappiamo benissimo cos’è questa specie di neolingua astratta e scientifica che nasconde la cruda realtà. Ma io vorrei venire al cuore di questo film complottista, che in effetti mette in scena un complotto gelidamente perseguito con un’occhiata costante al profitto, all’audience che porta soldi e pubblicità.

In cosa consiste precisamente il complotto, a cosa tende? A dominare la coscienza dell’uomo, dell’uomo vero. A dominare la percezione che ha di sé, della sua vita, del suo destino e, soprattutto, a ridurre il suo desiderio. Truman dovrà convincersi che la sua isola è tutto e che “tutto è intorno a lui” (guarda caso suonava proprio così lo slogan della pubblicità della Omnitel intorno a quel 1998). Dovrà convincersi che non vale la pena sognare, esplorare, essere qualcosa di più che un onesto e soddisfatto consumatore. Truman ha la casetta americana con giardino, ha una bella macchina, un lavoro sicuro, una moglie bella e bionda, un lavoro che gli dà da vivere senza troppi scossoni (a parte rate e mutui da pagare), il weekend con la grigliata tra amici, i riti quotidiani, la festa da ballo, la birra in compagnia. Bene, deve convincersi che questo è tutto, che la vita è tutta qui. Il suo orizzonte deve essere ridotto a quello di Seahaven, “the best place on earth”, e non pretendere di più.

Il problema, però, è che Truman non è un venduto a questo tipo di vita (come gli attori del cast intorno a lui, vere marionette), ma è appunto un “uomo vero” e ha un cuore, ha delle esigenze (“costitutive” diceva don Giussani) che sono il suo rovello e la sua forza. Truman ha avuto un padre che ha amato, si è innamorato di una donna che gli è stata portata via; Truman ha sempre sentito il richiamo del mare, dell’oltre. Ma è costretto dentro una gigantesca bolla e il ponte su cui siede tutte le sere è interrotto, non porta da nessuna parte. Intorno a lui un sofisticato e tecnologico gruppo di potere lavora perché deprima sé stesso, il suo cuore, la sua parte più vera: “tutto è stato già scoperto”, “mettete da parte il volo”.

Perché si abitui, non ci pensi più, si distragga e si rassegni. Finché non capita l’imprevisto, ciò che, lo diceva Montale, è la sola speranza e che fugge alle maglie del potere. L’imprevisto che rimette in movimento, che riattiva la memoria, che rimette al centro le domande fondamentali: “Come andrà a finire?”. E quella pavesiana “esigenza permanente” che era stata censurata fino a lì, si riattiva e diventa prepotente. Truman non ha più paura, anche e soprattutto perché ha un volto da guardare e da seguire, il volto di Sylvia, la donna pontefice, che è sempre nel suo cuore. Non è vero che oltre Seahaven non c’è nulla! Ecco Truman davanti alla porta del mistero. Christof gioca l’ultima carta, gli propone il successo di uno show televisivo, gli propone il suo sacro rovesciato. Christof è l’anticristo. Ma quello che propone è troppo poco, non corrisponde fino in fondo alla libertà immensa di un cuore umano, al suo desiderio. Truman sceglie il mistero.

Il pubblico degli aguzzini, dei complici stupidi del complotto, dei “miti carnefici” (ancora Montale!), gode, si entusiasma. Ma è un fuoco fatuo. Non c’è vera catarsi. Geniale la battuta finale dello spettatore-bruto: “Che danno sull’altro canale?”. Passiamo ad altro, come non fosse successo niente. Si parla del fatto, tutti ne parlano, finché va di moda, come ironizzava Gaber. Truman è un pugno nello stomaco all’uomo marionetta, agli uomini vuoti, impagliati (Eliot), che tanto piacciono al regime totalitario mondiale. A quei mezzi uomini che tutti rischiamo di diventare, se e quando riduciamo la drammatica grandezza del nostro desiderio.

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