Ad ogni 25 aprile la speranza che si cominci a ricostruire l’Italia partendo da un narrazione storica oggettiva si affievolisce sempre di più. Interventi ponderati e densi come quello di ieri di Salvatore Abbruzzese, pubblicato su queste pagine, diventano sempre più rari. La Resistenza è adoperata come mazza ferrata (sempre più di cartapesta) contro gli avversari politici di destra e la destra reagisce in modo incongruo ed erratico.



Orbene, finché si tratta di Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi, che rimprovera a La Russa di essere andato a Praga, dove si è tenuta, ieri 25 aprile, la conferenza dei presidenti dei parlamenti europei, è solo divertimento. La Russa, secondo Pagliarulo, aveva 364 giorni per andare a Praga: secondo questa logica sarebbe bastato chiedere ai presidenti dei parlamenti di rinviare la conferenza o non andare del tutto. Un po’ più serio è leggere, tra i tanti, gli interventi di personaggi di alto livello intellettuale che non riescono ad evitare di scivolare nella parzialità o nell’omissione.



Nell’editoriale sulla Verità di ieri (25 aprile), Marcello Veneziani, pur partendo da un assunto corretto, e cioè che l’Italia è stata liberata soprattutto dagli Alleati, riesce a dire che “morirono meno di settemila partigiani e, invece, più di 90mila soldati americani persero la vita”. Sarebbe interessante sapere da dove Veneziani ha ricavato queste cifre. Sul sito della 85esima divisione americana i caduti e dispersi americani risultano essere 29mila (da settembre 1943 a maggio 1945) ai quali vanno aggiunti 2.800 caduti in Sicilia.

Per quanto riguarda le perdite partigiane è preferibile citare uno storico come Giorgio Rochat nel suo Le guerre italiane 1935-1943 (Einaudi, 2005) e lo schema di pag. 443. 20mila caduti dell’esercito italiano dopo l’8 settembre; 10mila morti nella guerra partigiana nei Balcani; 40mila i militari italiani deceduti nei campi di prigionia; 3mila caduti dell’esercito del Sud; 24mila uccisi nei campi di sterminio, oltre a 7mila ebrei. I partigiani uccisi, sia in Italia che in prigionia, furono 40mila e non 7mila. A ciò vanno aggiunte le vittime civili delle stragi nazifasciste che nuovi conteggi assommano a ben 23mila.



D’altra parte nemmeno il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto a Cuneo, sfugge a una logica opposta e cioè di fare un racconto parziale e fuorviante, per quanto all’interno di una narrazione in gran parte condivisibile. Si prenda questo passaggio: “Dura fu la lotta per garantire la sopravvivenza dell’Italia nella catastrofe cui l’aveva condotta il fascismo. Ci aiutarono soldati di altri Paesi, divenuti amici e solidi alleati: tanti di essi sono sepolti in Italia”. Tutto qui, a fronte di 350mila tra morti, feriti e dispersi: ovvero l’Italia l’hanno liberata i partigiani e gli Alleati erano solo dei comprimari.

Ma ancora più fuorviante è il passo in cui si addebita al fascismo “il mito della violenza e della guerra; il mito dell’Italia dominatrice e delle avventure imperiali nel Corno d’Africa”, come se Adua (1898) e l’invasione della Libia nel 1911 non fossero mai esistite; ed è grave questa dimenticanza, signor Presidente, perché omette che, citando Piero Gobetti, “il fascismo è l’autobiografia della nazione”. Mussolini, con l’invasione dell’Etiopia, appoggiata da gran parte degli italiani, trionfava dove l’ex garibaldino Francesco Crispi aveva fallito. Solo con la Repubblica l’Italia ha chiuso definitivamente con la guerra d’aggressione.

A costo di ripetere cose già dette, il 25 aprile è l’anniversario di una vittoria decisiva che ha abbreviato la guerra. Questo perché le riserve alleate di munizioni e carburante stavano per esaurirsi (cfr. G.A. Shepperd, La campagna d’Italia 1943-1945, Garzanti 1975, pag. 451). L’insurrezione generale diede il colpo di grazia ai nazifascisti in ritirata e il sacrificio di tanti italiani ebbe il suo peso durante le trattative di pace per una guerra che avevamo perduto.

Ed è l’ora di venire al punto fondamentale di questo intervento, e cioè comprendere come la memoria nazionale sia stata letteralmente desertificata in questi ultimi cinquant’anni buttando a mare almeno quattro epopee che potevano essere fondanti di ideali di libertà e responsabilità.

1) Le insorgenze antigiacobine ed antinapoleoniche. Dal 1795 al 1809 tutta l’Italia continentale combatté contro i francesi, che commisero stragi ed eccidi paragonabili a quelli nazisti. I morti furono almeno 60mila.

2) Il Risorgimento. In Addio mia bella addio. Battaglie ed eroi sconfitti del risorgimento (Ares, 2020) ho ricalcolato i caduti in battaglia contandone almeno 23mila, esclusi i borbonici. E si trattava di volontari che provenivano non solo dal Piemonte ma da tutto il Centro e Nord Italia con una partecipazione napoletana importante nel 1848.

3) La Grande guerra. Il prezzo dell’unica grande vittoria del nostro esercito fu di 650mila morti. E questi militari provenivano da tutta Italia.

4) La Resistenza, come sopra e più volte descritto.

Orbene le insorgenze sono state quasi sempre ignorate dalla storiografia (ad eccezione delle opere di Massimo Viglione e, soprattutto, di Storia militare dell’Italia giacobina di Virgilio Ilari e Piero Crociani, pubblicata dalla Stato maggiore dell’Esercito). Questa resistenza allo straniero ebbe momenti epici e anche oscuri e delittuosi, come tutte le epopee nazionali, ma fu dimenticata sia dalle monarchie che, a fortiori, dai liberali. Col Risorgimento le cose sono andate diversamente grazie a una moltitudine di artisti che in ogni campo hanno perpetuato quell’epica; da Manzoni a Verdi, da Giovanni Fattori a Francesco Hayez. Grazie a loro l’epopea risorgimentale è diventata un patrimonio nazionale che è durato nel tempo fino alla Grande guerra prima e alla Resistenza poi. I partigiani comunisti erano “garibaldini”, quelli monarchici avevano radici sabaude e i cattolici guardavano a Tito Speri. Questa tradizione è durata almeno fino al ’68 e chi scrive ha la fortuna di appartenere all’ultima generazione patriottarda (postnapoleonica e predorotea. Cit. Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo).

Poi, un po’ alla volta tutto è andato guastandosi. Del mito della Grande guerra si era appropriato il fascismo: appropriazione indebita, perché tutta la nazione vi aveva preso parte. Per cui si è incominciato a guardare al concetto di Patria con sospetto, e poi ricordandone solo gli aspetti più atroci, come le decimazioni e il disprezzo dei generali per la vita dei soldati: cose vere, ma che non rispecchiano tutta la realtà storica di una lotta che ha salvato l’Italia.

Il Risorgimento è stato demolito nel corso degli anni, soprattutto per opera dei cattolici che sono caduti nella trappola ideologica tesa dall’anticlericalismo, dimenticando l’imponente partecipazione dei cattolici alla prima guerra di indipendenza e alle insurrezioni antiaustriache del 1848-1849 e restringendo la concezione del Risorgimento all’attacco alla Chiesa compiuto da Cavour e dai suoi epigoni. Ma il Risorgimento non fu solo questo.

E infine, ecco la demolizione della Resistenza, laddove ci si limita a considerare i molti crimini compiuti da alcuni suoi esponenti e non le eccezionali testimonianze di valore e di umanità di gran parte dei suoi combattenti (si veda S.R. Contini e A. Leoni, Partigiani cristiani nella resistenza. La storia ritrovata 1943-1945, Ares 2022).

Vorrei che il lettore tenesse a mente questi dati. Dall’Unità d’Italia alla Resistenza vi furono 80 anni di memoria custodita: una memoria che diede agli italiani la volontà di combattere contro i tedeschi e i fascisti che li assistevano nella spoliazione del Paese. Dalla Resistenza ad oggi vi sono sempre 80 anni, ma questa memoria è stata dissipata e distrutta e non solo da chi ha disprezzato la Resistenza per antipatie ideologiche o perché erede di quell’attesismo imbelle che era il peggior nemico dei partigiani. La responsabilità è di quella sinistra che ha continuato e continua oggi più che mai ad adoperare quella memoria come arma impropria nell’agone politico, negando o minimizzando i crimini commessi dai partigiani.

Senza questa memoria vi saranno sempre meno italiani disposti a dare la vita per la libertà e la giustizia, per combattere all’interno contro le mafie e all’esterno contro le dittature che, oggi, rialzano la testa in nome di un “multipolarismo” o di un “multiculturalismo” che, per loro, significa solo impunità di opprimere i più deboli. Una cosa che la tradizione garibaldina non avrebbe mai accettato.

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