Nel suo discorso per il 70esimo anniversario della liberazione dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista, Sergio Mattarella ricordava che “la Resistenza in armi e la lotta partigiana – emblema della riscossa nazionale contro gli oppressori – non furono espressioni di avanguardie separate. I legami di solidarietà […] si sono fatti tra il ’43 e il ’45 via via più intensi, tessendo una trama di umanità che ha composto l’humus della ribellione morale. Tanti eroi hanno donato la vita per la nostra libertà […]. A questi dobbiamo affiancare gli eroi quotidiani che salvarono vite, che diedero rifugio ad ebrei, che si prestarono a compiti di cura o di supporto”.



Fare memoria della Resistenza allora significa anche raccontare e far conoscere le storie di alcuni di questi “eroi quotidiani”. Tra questi vi è senza dubbio don Enrico Bigatti, un giovane sacerdote, all’epoca poco più che trentenne e coadiutore presso la parrocchia di Santa Maria Rossa nella sua natia Crescenzago, allora comune ed oggi quartiere della periferia nord-est di Milano. A don Bigatti e ad altri tessitori di quella trama di umanità che ha composto l’humus della ribellione morale è stato dedicato il 22 aprile appena trascorso un incontro (In lotta, per amore. I cattolici e la Resistenza a Milano) promosso dal Circolo Feltre e dall’associazione “Il Circolino” di Milano e che ha visto la partecipazione di Marta Busani (Università Cattolica del Sacro Cuore), Luigi Castioni (Azione cattolica Santa Maria Rossa) e Carla Bianchi Iacono, storica e figlia di un protagonista delle vicende della Resistenza milanese, l’ingegnere Carlo Bianchi ucciso a Fossoli (Modena) nel 1944.



In una sera di settembre del 1943, pochi giorni dopo l’armistizio con gli Alleati firmato dal governo Badoglio, don Aurelio Giussani e don Andrea Ghetti, insegnanti presso il Collegio San Carlo, ricevono l’inaspettata visita di un amico sacerdote, don Enrico Bigatti: costui era preoccupato per la sorte di una giovane che aveva nascosto in casa sua un militare inglese fuggito, ma che ora temeva una perquisizione che avrebbe portato alla rovina la sua famiglia. I tre sacerdoti decidono che si deve agire e si rivolgono a don Natale Motta, residente a Varese, vicino al confine con la Svizzera e con lui organizzano il passaggio oltre confine: nonostante timori e pericoli, l’operazione riesce perfettamente. Quell’episodio, che pare destinato a restare isolato, fa scattare qualcosa nell’animo di don Enrico: “Ne ho piene le tasche della prudenza!”  scriverà mesi dopo nel suo diario. “Chi non ha paura?! Datemi aiuto e carità”.



Quell’evento quasi casuale segna così l’inizio dell’Oscar, acronimo di Opera scoutistica cattolica aiuto ricercati (e divenuto in seguito Organizzazione soccorsi cattolici antifascisti ricercati): una rete di soccorso che aiutava indistintamente i ricercati dalla polizia fascista e tedesca, fornendo l’aiuto necessario per oltrepassare la frontiera italiana verso la Svizzera e la salvezza. Dell’Oscar don Bigatti diventa fin da subito una delle anime principali: ora in veste di professore liceale, ora in borghese, ora in veste di donna, ora con l’abito talare organizza spedizioni clandestine, assicurando l’incolumità di perseguitati politici, ebrei, renitenti alla leva, sbandati. Di notte, con la sua bicicletta, è sempre in giro a donare conforto e aiuto. Nel gennaio del 1944, però, le SS lo prelevano dalla canonica di Crescenzago e lo rinchiudono a San Vittore. Pochi istanti prima dell’arresto don Enrico ingoia una lista di nomi di fuggitivi che teneva nel breviario, mentre un’altra lista non viene trovata nella sua camera solo perché i militari rovistano dappertutto ma non controllano, forse per rispetto, la statua della Madonna sotto la quale egli l’aveva nascosta. È  un miracolo che gli permette di scampare alla fucilazione diretta. Non però al carcere.

Quei 34 giorni di prigionia iniziati tra paura ed angoscia si trasformano invece nella  “seconda vocazione” della sua vita. Così infatti scrive nel suo diario: “Nel dolore si comprende il valore della realtà. Nel rumore del mondo è troppo facile dimenticare, non vedere, svalutare, condannare, far soffrire… La prigione è il richiamo ad una revisione; dopo 15 giorni di permanenza qui, risulta che nulla è difficile od impossibile se è sottoposto alle leggi dell’Amore (di Dio), anche la morte”. Da questa nuova consapevolezza nasce in lui un rinnovato desiderio di continuare nel compito intrapreso e che più tardi, a guerra conclusa, in una pagina del suo diario sintetizzerà in modo tanto coinciso quanto efficace: “SERVIRE la grande parola d’ordine della redenzione, Ave Maria!”.

Dal febbraio del 1944, quando torna in libertà, fino al termine del conflitto (e oltre) sono numerose le azioni di bene compiute da don Bigatti e sono rivolte a chiunque abbia bisogno di aiuto perché, come scrive ancora nel suo diario, “…Il bene non ha né bandiere, né colore. Bisogna dare, dare senza nulla attendere; la gente non vuole solo ascoltare le regole, ma anche vedere come si praticano; per l’ambiente in cui mi trovo, il pulpito non serve troppo a risolvere la questione. È assai più utile ed efficace la strada”.

Di tutte queste azioni una va necessariamente raccontata. Nel primo pomeriggio di una giornata di fine aprile le autocolonne dei nazifascisti si dirigono verso nord per abbandonare la città ormai liberata: quel pomeriggio di aprile non è un giorno qualunque, è il 25 aprile 1945. Avvisati della fuga dei tedeschi, gli uomini della 110ma Garibaldina decidono di fermarli all’altezza del ponte vecchio di Crescenzago. Allora i tedeschi prendono in ostaggio alcuni civili, fra i quali dei bambini, per aprirsi una via di fuga. La minaccia è chiara: o la fuga, o la vita degli ostaggi. Chiamato dalla popolazione, don Enrico Bigatti senza un attimo di esitazione esce dalla canonica e si fa incontro alla colonna tedesca con le braccia alzate gridando: “Basta, basta morti!”, armato solo della sua fede cristiana. Miracolosamente cessa la sparatoria e il sacerdote ottiene la salvezza degli ostaggi permettendo ai tedeschi di continuare la fuga.

Ricordando l’episodio, don Enrico lo annota così nel suo diario: “Quando il 25 aprile, nella sparatoria contro quell’autocarro tedesco, mi sono avanzato verso il ponte per raccomandare la resa, ero armato solo di un’Ave Maria. E tutto finì bene, nonostante il gravissimo pericolo mio d’essere colpito e della popolazione se lo scontro fosse continuato. Anche in quel fatto la Madonna prese l’iniziativa di tutto. Bisogna che questo si sappia. Amen”.

Grazie alla guida e all’esempio di don Bigatti e di altri come lui i giovani che hanno dato vita a quella ribellione morale da cui è sorta la Resistenza sono poi diventati gli uomini che hanno contribuito a ricostruire l’Italia uscita devastata dal secondo conflitto mondiale. Anche questo nostro tempo è un tempo in cui siamo tutti chiamati a ricostruire non solo il tessuto economico ma prima ancora quello sociale e umano così provato dal lungo periodo di pandemia. Il senso di questo compito si può descrivere ancora con le parole di don Bigatti: “Divento anch’io vano e inutile quante volte mi adatto al mondo… il sale diventa zucchero”. Fare memoria della Resistenza e soprattutto delle tante e così diverse storie delle persone che l’hanno vissuta significa oggi far memoria della certezza che ricostruire e ricominciare è sempre possibile. Occorre anzitutto una cosa: che l’uomo sia fedele alle sue esigenze di bellezza, verità e giustizia, solo così, infatti, il sale è destinato a non diventare zucchero.

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