Per oltre un mese, e forse di più, è divampata nel nostro Paese una feroce polemica, alla fine sopraffatta da una sorta di conformismo intimidatorio.
Questa polemica ha riguardato l’eguagliabilità della nostra Resistenza alla lotta del popolo ucraino contro l’invasione della Russia. I termini di questa polemica sono stati, a dir poco, intimidatori, poiché all’alternativa eguaglianza-sì eguaglianza-no si è accompagnata, sistematicamente, l’invettiva degli egualitari: chi mette in discussione quest’eguaglianza si schiera con l’invasore ed è nient’altro che un putiniano.
L’obiettivo di questa polemica sono state, insieme, l’Anpi, la Marcia della pace ad Assisi e la trasformazione della celebrazione del 25 Aprile in un tripudio di bandiere giallo-blu in sostegno della politica del governo sulla guerra ucraina. Il tripudio di bandiere non c’è stato, le reti televisive non hanno mancato di sottolinearlo con riprovazione e quasi con risentimento e la spaccatura del Paese si è approfondita.
Nell’omelia di domenica Papa Francesco ha ammonito che questa guerra sta provocando non solo vittime innocenti e la distruzione di un’intera nazione, ma anche guasti e lacerazioni profonde, ed alla lunga gravissime, nelle società di tutti gli altri Paesi che, a diverso titolo, vi sono indirettamente coinvolti.
Questa polemica è un esempio eloquente di questi guasti e di queste lacerazioni: ogni ricorrenza, anzi ogni occasione, è divenuta buona per dividere i buoni dai cattivi e intraprendere una crociata. Al punto che si avverte sempre più un fastidio per ogni iniziativa dello stesso Papa che non si possa ridurre a questo imperativo manicheo, anzi a questa coazione alla rinuncia ad ogni riflessione: anche la Croce di Cristo deve scegliere le mani dalle quali farsi portare.
Questo spiega quest’intervento quando le luci del 25 Aprile si sono già spente: non serve a prendere partito, ma intende proporsi, per l’appunto, come un invito alla riflessione.
Le questioni su cui mi sembra si debba riflettere sono due, e la seconda è solo una inevitabile conseguenza della prima.
La prima questione ha ad oggetto le parole e la storia.
In questa polemica, da parte di chi l’ha attizzata, si manifesta un trend generale di questo tempo, quello di un pensiero unico, che è risalente e che, però, si è sempre più incrudito fino ad assumere i colori bellicosi di questi ultimi mesi. Tale pensiero ha abrogato la storia, con i suoi precedenti ed i suoi perché: tutto è un eterno presente, le parole non hanno altro senso che quello che si dà loro qui e ora, chi propone di guardare anche indietro e di chiedersi perché si sottrae agli imperativi di questo presente, sta col passato e deve essere tacitato. Non a caso tra i principali obiettivi di questa scomunica sono due storici, Luciano Canfora e Franco Cardini, che sono di idee molto diverse, anzi spesso opposte, ma sono due storici veri: al punto da essere stati ormai pressoché oscurati.
Eppure si è sempre detto e spiegato che le parole hanno una storia e che senza di esse non hanno significato.
Questo vale anche per una parola come “resistenza”, anzi vale per essa più di ogni altra, perché è intrisa di storia ed ha essa stessa fatto la storia del nostro Paese.
Tanto per restare nei paraggi: nessuno si è mai sognato di denominare la lotta del popolo russo contro l’invasione nazista (con 20 milioni di morti) come resistenza; è stata una “grande guerra patriottica” (come la chiamano gli stessi russi), ma non è stata, né può essere paragonata, alla resistenza dei nostri partigiani.
Non è stata né meglio né peggio, non è stata né più né meno eroica, non è stata né più né meno gloriosa. È stata semplicemente un’altra cosa.
Ciò che fa distinguere l’una dall’altra è una differenza qualitativa, proprio quella differenza che da qualche decennio a questa parte si è provato a dimenticare, ossia la proiezione tutta “interna” della Resistenza e l’orizzonte dal quale essa traeva alimento.
Proiezione tutta interna, perché la Resistenza aveva come suo primo obiettivo non solo quello di liberare l’Italia settentrionale dal giogo nazifascista in appoggio alle forze armate alleate, di cacciare lo straniero. Ma, soprattutto, quello di esser parte attiva di questa liberazione, di far sì che gli italiani potessero dire di essersi essi stessi liberati dal fascismo e dal suo alleato germanico. Perché la Resistenza è stata – piaccia o no – innanzitutto una guerra civile: il nemico non era l’invasore in quanto tale, ma l’esercito tedesco in quanto sostegno militare di quel che rimaneva del fascismo che per vent’anni aveva dominato l’Italia.
E nella testa e nei cuori di questa Resistenza, nell’animo delle sue componenti fondamentali, la socialista, la cattolica e l’azionista, mentre andava in scena questa feroce tragedia che divideva e straziava il corpo della società, c’era l’orizzonte di un’altra Italia, la rivendicazione, anche verso le stesse forze alleate, la monarchia e la politica nostrane, del diritto di costruire il dopo-guerra dell’Italia e del suo popolo in un modo anziché in un altro, in quel modo solidale che avrebbe preso corpo nell’Assemblea costituente e nella nostra Costituzione repubblicana.
L’“insurrezione” degli ultimi giorni quando la guerra in Italia era già vinta, la morte affrontata solo per “liberare” Milano, Genova, Torino prima che arrivassero i carri armati alleati, la stessa esecuzione di Mussolini e dei suoi gerarchi parlano da sole e raccontano questa storia in modo esemplare e indiscutibile: questo è il senso della Resistenza e senza di questo non si capisce nulla di essa.
La lotta dell’Ucraina contro l’invasione russa, invece, ha poco di questa storia, non è una guerra civile, né il suo esercito si batte per cambiarne le istituzioni e rivolgerle verso un altro orizzonte: è una guerra sacrosanta per la libertà dallo straniero e per l’indipendenza nazionale, è una guerra patriottica come quella che più di sessant’anni fa condusse il suo invasore di oggi: né più né meno.
Ma se è così, allora ne discende la seconda questione: perché questa polemica cruenta, perché l’ostracismo a chi queste cose ricorda, perché questo risentimento malcelato verso la maggioranza della popolazione che di questo eguagliamento non sembra proprio convinta?
Questi interrogativi sembrano avere solo due risposte possibili.
La prima è che questa radicalizzazione risponda ad un più o meno consapevole disegno di disciplinamento delle società, della nostra come anche delle altre società europee: non c’è più spazio per il confronto perché il pensiero unico del tempo neoliberale non riesce a sedurre le popolazioni e deve, perciò, essere imposto con altri mezzi.
La seconda è peggio della prima: si preparano le nostre società all’eventualità di un’escalation ben più grave, ad un salto di qualità di questa sorta di cobelligeranza non dichiarata, dove la geopolitica rinuncia ad operare per procura e prende il rischio di una guerra totale.
Nessuna delle due risposte sembra annunciare un bell’avvenire. Come ha detto Francesco, questa guerra è una grande follia.
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