Anche il Covid-19 può essere fonte di infortuni e di responsabilità penale.

Ebbene sì.

Prima di dire come e perché, è opportuno fare un accenno e ricordare quale sia (o, per meglio dire, quale dovrebbe essere) l’ambito di applicazione del diritto penale in un ordinamento autenticamente liberal-democratico.

In estrema sintesi, possiamo dire che l’ordinamento riserva alla giurisdizione penale un carattere del tutto eccezionale, residuale, sussidiario. Quella penale non è semplicemente “un’altra” forma di responsabilità, diversa di genere rispetto a quella civile, è una responsabilità che lo Stato disciplina allorquando debba reagire a comportamenti gravi, che mettono in discussione le fondamenta della società politica, e cioè la tutela delle libertà fondamentali. Interviene la responsabilità penale quando viene minata (aggredita) la libertà dell’altro.



Cosicché, mentre la responsabilità civile disciplina e governa con il carattere dell’ordinario la quotidianità di rapporti economici e non solo dei consociati, la responsabilità penale interviene “eccezionalmente” quando questi rapporti degenerano in un autentico conflitto.

Essa è potenzialmente privativa della libertà (personale e patrimoniale) dell’uomo, e dunque non può che essere pensata come extrema ratio delle tutele dell’ordinamento; la conseguenza è che tanto più si aumenta il panorama normativo di carattere penale, tanto più si comprimono i diritti di libertà.



Purtroppo, ormai da molti anni, il reato non è più solo un comportamento che viene perseguito perché il reo rimproverabilmente si è determinato per il torto e contro il diritto, così – come dicevamo – calpestando la libertà altrui, ma è diventato paradossalmente qualcosa che anticipa l’offesa quando questa non è stata ancora compiuta. Non viene più punito il reato, ma addirittura anche solo il rischio di esso: si pensi alla responsabilità da reato estesa alle persone giuridiche. La prospettiva è notoriamente quella della cosiddetta “società del rischio”, teorizzata a partire dalla sociologia contemporanea di Ulrich Beck.



Di questa deriva ha parlato anche di recente Papa Francesco, che ha espressamente censurato l’indebita estensione del diritto penale, sottolineando la necessità di contenere l’irrazionalità punitiva. Luciano Violante ha parlato di illusione repressiva, combinata con un alone di sfiducia, di sospetto e di esasperata sorveglianza delle imprese da parte dei pubblici poteri.

Il concetto è lo stesso: ritenere, erroneamente, che ogni fenomeno minimamente critico della società contemporanea e così anche molte attività che riguardano le imprese, debbano trovare risposta e gestione del rischio attraverso la sanzione penale.

La premessa sembra opportuna e calzante calandosi nell’attualità, per commentare la scelta regolatoria del nostro governo, il quale – evidentemente incurante della sofferenza enorme che già grava sulle imprese, così fortemente compromesse dal blocco forzoso e temporaneamente necessario delle attività produttive per affrontare l’emergenza pandemica – ha introdotto una norma capace di creare all’interno di ciascuna impresa o di ciascun luogo di lavoro una nuova fonte di infortuni.

Una fonte di infortuni creata dalla politica, verrebbe da dire, non dall’attività lavorativa in sé.

Tutto nasce dall’introduzione all’interno del Decreto Cura Italia di una previsione che esplicitamente riconduce l’infezione patita sul luogo di lavoro ad un infortunio sul lavoro, riconoscendo le garanzie Inail conseguenti. La norma prevede che “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (Sars-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato” (art. 42 comma 2).

Nella sostanza, a fini Inail, viene equiparato all’infortunio sul lavoro – e non alla malattia – anche il contagio da Covid-19 che il lavoratore abbia contratto per l’appunto “in occasione di lavoro”.

Per il concetto di infortunio sul lavoro da sempre la guida normativa è stata una disciplina del 1965, secondo cui esso veniva ritenuto un evento occorso per causa violenta in occasione del lavoro e dal quale fosse derivata la morte del lavoratore, ovvero una inabilità permanente o parziale dall’esercizio della attività lavorativa.

Il governo ha dunque sostanzialmente equiparato la causa violenta, sino ad oggi richiesta, alla causa virulenta, ovverosia all’esposizione del lavoratore al virus.

Quale è stata, ad oggi, la ricaduta di questa “intuizione” politica? È presto detto. Al 21 aprile 2020 sono state segnalate all’Inail 28.381 denunce di infortunio a seguito di Covid-19: una denuncia di infortunio su quattro (fonte Report Inail del 30 aprile 2020).

Questo quadro porta con sé evidentemente potenziali risvolti penalistici, perché qualora un lavoratore dovesse contrarre l’infezione durante l’attività lavorativa, il fatto lesivo in sé potrebbe essere addebitato al datore di lavoro, a titolo di lesioni personali colpose, ovvero di omicidio colposo, per non aver impedito il contagio.

A ben vedere, sarebbe stato sufficiente aggiungere, all’esito del passaggio normativo dell’art. 42 comma 2 del decreto Cura Italia sopra ricordato, una semplice frase: “resta esclusa ogni rilevanza penale”.

Anche perché, cercando per un momento di immaginare lo sviluppo possibile di un procedimento penale a carico di un datore di lavoro per aver imprudentemente esposto il proprio lavoratore al rischio di contagio da coronavirus, sarà sostanzialmente impossibile provare che il contagio sia avvenuto con certezza sul luogo di lavoro e non in famiglia o al supermercato.

Si può dunque ipotizzare che prenderanno avvio migliaia di procedimenti penali, del tutto inutili, unicamente fonte di costo per le imprese, di angoscia e preoccupazione per il malcapitato imprenditore; egli si troverà indagato prima, imputato poi, e con ogni probabilità assolto all’esito, ma solo dopo anni.

Il processo è esso stesso una pena, diceva Carnelutti; sarebbe opportuno ricordarlo, magari dopo aver compreso il perimetro di intervento del diritto penale in una moderna liberal-democrazia.

Del resto, non deve e non può essere lo spauracchio della sanzione penale a motivare il datore di lavoro ad organizzare un ambiente di lavoro sicuro per i propri dipendenti, bensì il senso di auto-responsabilità sociale, peraltro dimostrato nei fatti dai nostri imprenditori e dai cittadini italiani in questa congiuntura cosi difficile per il Paese.

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